Storie

Sono un’insegnante e ho visto il bullismo omofobico nelle scuole: il mio racconto

C’è un momento preciso in cui ti rendi conto che il dolore di un’altra persona diventa anche il tuo. Ti scava dentro, ti toglie il fiato. Ti lascia con un nodo in gola che non se ne va. Quel momento, per me, è stato il giorno in cui ho visto Marco, un mio studente di quindici anni, tremare in un angolo del corridoio, la schiena contro il muro, mentre un gruppo di ragazzi lo circondava. Lo chiamano “bullismo”. Io direi, piuttosto, disumanità. Ridevano, lo spingevano, lo chiamavano in modi che non voglio ripetere. “Che schifo.” “Invertito.” “Dovresti sparire.” Lui non diceva nulla. Non urlava. Non si difendeva. Teneva gli occhi bassi, le mani strette sui libri, come se potessero proteggere almeno una parte di lui. Mi sono avvicinata, ho gridato i nomi di quei ragazzi, li ho fatti smettere. Li ho mandati via con uno sguardo severo e un tono che non lasciava spazio a repliche. Ma dentro di me, mi sentivo devastata. Marco ha cercato di rimettersi in piedi con dignità, ha annuito e ha detto che stava bene. Ma io sapevo che non era vero.

bullismo

Il silenzio che uccide

Quello che ho visto quel giorno non è stato un caso isolato. Lo sapevo bene. Lo avevo sentito nei sussurri tra i banchi, nelle risatine cattive, nei foglietti passati di nascosto. Avevo percepito il disagio di alcuni ragazzi nel semplice camminare nei corridoi. Il peso di doversi nascondere.

La cosa più terribile?

Il silenzio degli altri studenti che vedevano e non dicevano nulla, quello degli adulti che abbassavano lo sguardo o minimizzavano. “Sono solo ragazzi.” “È una fase.” “Se la prenderanno con qualcun altro, prima o poi.” Quel silenzio uccide.

Vergogna e rimorso

Mi sono chiesta per giorni se avrei potuto fare di più. Se avevo aspettato troppo. Se avessi potuto accorgermene prima. Perché la verità è che anche io, un tempo, ero stata in silenzio. Ricordo un altro ragazzo, anni fa, quando ero ancora una studentessa. Si chiamava Luca. Era “diverso”, lo dicevano tutti. Lo dicevano con disprezzo, con cattiveria. E noi, compagni di classe, non facevamo nulla. Io non facevo nulla. Ridevo per nervosismo, magari. Guardavo dall’altra parte. Credevo che non fosse affar mio. Un giorno Luca non si è più presentato a scuola. Non ho mai saputo cosa gli fosse successo davvero. Ma da allora il rimorso non mi ha mai lasciata. E oggi, vedendo Marco subire la stessa crudeltà, ho sentito tutta la vergogna di quella mia vigliaccheria passata. Non avrei più permesso a me stessa di stare zitta.

A scuola

Il bullismo omofobico non è solo violenza fisica. È veleno che si insinua nella mente, l’ansia con cui alcuni studenti iniziano la giornata, il respiro corto prima di varcare la soglia della classe. È la sensazione di essere sbagliati, fuori posto. La convinzione che non ci sia via d’uscita. Così ho iniziato a parlare. Ho detto ai miei studenti che la diversità non è un insulto, che esistono alleati e che non sono soli. Alcuni hanno abbassato lo sguardo, infastiditi. Dietro di me, i sussurri si sono fatti più insistenti. “Eccola, la prof che difende i fr*ci.” Ma ho anche visto qualcuno tirare un sospiro di sollievo. Ho visto Marco sorridere, piano, per la prima volta dopo settimane.

Il cambiamento parte da noi

Insegnanti, genitori, studenti. Siamo tutti responsabili del bullismo. Se scegliamo di non vedere, di non ascoltare, di non parlare, allora siamo complici. E questo l’ho capito solo ora.