“La parola è il prodotto di una cultura”

“Le parole che usiamo sono importanti. Dicono molto di più del loro significato esplicito, rivelano il modo di pensare.”

Razzismo Culturale

 

È così che Marco Aime scrive in una lettera aperta a un bambino rom nel libro -“La macchia della razza”- edito da Elèuthera, soffermandosi sul valore profondo della parola.
In un momento in cui tutto sembra lecito in nome della “libertà di pensiero”, con una eleganza disarmante, Aime ci aiuta a percorrere il cammino della discriminazione quotidiana, della violenza verbale, della paura dell’Altro, il diverso da noi (noi chi?).

Antropologo di fama internazionale, insieme a Marc Augé (premessa) e Guido Barbujani (postfazione), Aime ci fa riflettere sulla dicotomia che viviamo dai tempi del colonialismo (questo sconosciuto), oggetto di studio dell’antropologia culturale: l’incontro-scontro tra le culture, quella dominante e quella subalterna.
Ma se il confronto con l’Altro è lecito quando è mosso da uno spirito di conoscenza, rispetto e crescita reciproca, non lo è quando il pensiero è viziato da pregiudizio, ostilità, odio.
E quando la possibilità di esprimersi incontra l’odio, ecco che “semplifichiamo la vita degli altri per rendere più semplice la nostra”.

Succede quello che gli antropologi definirebbero “essenzialismo”, cioè ridurre una cultura a essenza, chiaramente in termini negativi. Ed è una operazione pericolosa e sicuramente vantaggiosa per chi ne fa uno strumento di potere, perché diventa difficile, poi, restituire tutta quella complessità e unicità, ricca di sfumature proprie di un individuo, invece molto spesso facilmente stigmatizzata.

Ma per ogni comportamento esplicitamente violento e discriminatorio, riconoscibile anche ad un occhio poco allenato, ce ne sono decine, centinaia di altri meno visibili ma altrettanto pericolosi.
“Il razzista lo vedi, lo riconosci, lo senti parlare. Puoi combatterlo. Gli altri no. […] quelli che vedono, sanno e tacciono. Per questo fanno più paura.”

Sdrammatizzare la discriminazione  rende lecita la violenza e la normalizza.

Con il debole alibi della difesa delle origini (quali origini? Le nostre? Quelle nomadi?) e dell’identità da proteggere (è davvero possibile delimitare un’identità?) ci trinceriamo nelle nostre case, in cerca di distanza e separazione, ergendo mura insormontabili con i mattoni delle nostre convinzioni e dei nostri pregiudizi.

Il razzismo culturale

“Siamo diventati razzisti senza nemmeno più bisogno della razza. Siamo dei fondamentalisti culturali, per i quali c’è un solo modo di vivere e pensare. Tutto il resto è da cacciare. Parliamo di scontro culturale ma in realtà siamo noi ad alimentare la cultura dello scontro.”
Un testo commovente che ci pone di fronte alla responsabilità di conoscere la storia, all’uso cosciente delle parole e alla consapevolezza (spesso assente) del nostro ruolo sociale.

 

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