Riflessioni

Come la percezione della famiglia cambia nel mondo: modelli culturali a confronto

Quando diciamo “famiglia”, spesso evochiamo un’immagine precisa. Una madre, un padre, figlie e figli. Una struttura apparentemente “naturale”, lineare, universale. Ma cosa succede quando iniziamo a guardarci intorno con occhi antropologici e non solo biografici? Accade qualcosa di rivoluzionario: scopriamo che la famiglia, quella che riteniamo ovvia, è in realtà un prodotto culturale. Costruita. Modificabile. E infinitamente varia.

La famiglia non è “naturale”: è culturale

L’antropologia ce lo ripete da decenni: ciò che crediamo essere “naturale” è spesso solo una forma culturale resa invisibile dall’abitudine. È il grande contributo di studiose e studiosi come Margaret Mead, Claude Lévi-Strauss, Bronisław Malinowski, fino ad arrivare a Françoise Héritier, che hanno analizzato modelli familiari in decine di culture differenti, scardinando ogni presunta “normalità”.

Margaret Mead, ad esempio, osservando le società del Pacifico meridionale, ha mostrato come i ruoli genitoriali, i comportamenti affettivi e le modalità educative siano estremamente variabili. In alcune isole della Polinesia, il ruolo della cura è distribuito collettivamente: le madri biologiche non sono le uniche responsabili, e ogni figura adulta partecipa al crescere di una creatura. È una rete, non una coppia genitoriale.

Anche Claude Lévi-Strauss, nella sua monumentale opera “Le strutture elementari della parentela”, ha esplorato il concetto di parentela non come fatto biologico, ma come sistema simbolico, governato da regole culturali complesse, che cambiano da un popolo all’altro. Il legame di sangue, nella sua lettura, è spesso secondario rispetto al patto sociale.

I modelli familiari: uno sguardo oltre i confini

In alcune culture dell’Africa occidentale, come tra gli Akan del Ghana, il sistema di parentela è matrilineare: significa che l’appartenenza, i beni e l’identità passano dalla linea materna. Il ruolo di padre è importante, ma non ha lo stesso peso di quello dello zio materno, che assume funzioni educative e autoritarie.

Nelle società Inuit, invece, la famiglia può includere figure che nel nostro modello occidentale sarebbero “estranee”. L’adozione è un fenomeno fluido e reciproco: bambine e bambini possono essere affidate e affidati a coppie senza figlie e figli o a parenti lontane e lontani per motivi spirituali, pratici o affettivi, e tutto avviene senza il trauma dello “strappo” che spesso caratterizza il nostro modello.

Anche in molte comunità queer contemporanee – oggi finalmente oggetto di studio in ambito antropologico – il concetto di “famiglia scelta” ha rivoluzionato la nozione di legame affettivo e genitoriale. Qui la biologia lascia spazio al patto affettivo, alla cura volontaria, all’intenzionalità delle relazioni.

L’ossessione occidentale per la famiglia nucleare

Il nostro modello dominante – quello della famiglia nucleare eterosessuale, monogama e a due genitori – si è affermato in Europa tra XIX e XX secolo, ed è stato rafforzato da esigenze economiche e ideologiche. Ma non è sempre stato così, nemmeno da noi. Le famiglie contadine dell’Italia meridionale, ad esempio, erano spesso allargate, multigenerazionali, cooperative. Il cambiamento è avvenuto per adattarsi ai ritmi del capitalismo urbano, alla frammentazione sociale, all’individualismo moderno.

Pensatrici come Françoise Héritier e Judith Stacey hanno mostrato come il patriarcato, il binarismo di genere e la centralità della coppia monogamica siano costruzioni sociali profondamente politiche. La famiglia diventa così anche uno strumento di controllo: su corpi, desideri, eredità, educazione.

Ma quindi, cos’è “una famiglia”?

Non esiste una risposta unica. Antropologhe e antropologi hanno catalogato centinaia di forme familiari: poliandria in Tibet (una donna sposata con più fratelli), poliginia in Africa centrale (un uomo con più mogli, ognuna con un proprio spazio e ruolo), famiglie sororali in Sud America, dove sorelle crescono insieme le rispettive figlie e figli.

In alcune tribù dei Mosuo, in Cina, non esiste il matrimonio: le donne ricevono i partner notturni in casa, ma le figlie e i figli restano nella casa materna e vengono cresciute e cresciuti dalla famiglia della madre. Il padre biologico può essere presente o meno, senza che questo comprometta il senso di stabilità e amore.

Tutto questo ci interroga: siamo sicure e sicuri di sapere cosa sia davvero “una famiglia”?

Perché questo sguardo ci riguarda, oggi

Se lavoriamo con l’infanzia, con l’adolescenza, se cresciamo figlie e figli o li accompagniamo nel loro sviluppo, dobbiamo liberarci da definizioni rigide. Famiglia è dove c’è cura. Dove c’è riconoscimento. Dove esistono legami significativi, non necessariamente biologici. Dove si cresce insieme.

Capire che la famiglia è una costruzione culturale, e non un destino biologico, ci permette di essere più flessibili. Più accoglienti, più preparate e preparati a leggere i bisogni profondi di chi abbiamo accanto. Anche nelle scuole, nei consultori, nei tribunali, è fondamentale che chi lavora a contatto con le nuove generazioni sia dotata e dotato di questo sguardo plurale e non giudicante.

Naturale è solo ciò che ci hanno insegnato a non mettere in discussione.

Il nostro compito oggi, come adulte e adulti responsabili, è decostruire ciò che ci hanno raccontato come “naturale”. Famiglie con due madri, due padri, un solo genitore, genitrici e genitori non biologici, multietniche, ricomposte, queer, scelte, transgenerazionali: sono tutte forme legittime, reali, potenti.

L’antropologia ci insegna che non c’è un’unica forma giusta. E che l’unico errore possibile è chiudere gli occhi davanti a questa meravigliosa complessità.