Non è solo una questione di parole. È una questione di potere
C’è un filo sottile, ma resistentissimo, che lega il linguaggio alla struttura della nostra società. Quel filo si insinua tra le pagine dei libri scolastici, nei cartelli delle toilette pubbliche, nei documenti burocratici, nei notiziari, e soprattutto nel modo in cui parliamo di chi cresce: le bambine, i bambini e gli adolescenti. Eppure, raramente ci interroghiamo sul peso delle parole che usiamo ogni giorno. E sul modo in cui quelle parole possono discriminare.
Linguaggio e realtà: chi plasma chi?
La linguistica contemporanea, da Wittgenstein a Sapir-Whorf, ha indagato la relazione tra linguaggio e pensiero, suggerendo che non descriviamo semplicemente il mondo con le parole, ma lo creiamo. Se nomino qualcosa in un certo modo, la definisco; se la definisco, le assegno un posto nella gerarchia sociale. E qui si insinua il primo nodo problematico: chi decide come chiamiamo le cose e le persone?
La risposta non è neutra: storicamente, sono stati i gruppi dominanti a stabilire le regole del discorso. Per questo il linguaggio porta spesso con sé una visione del mondo androcentrica, eurocentrica, abilista, eteronormativa. Quando parliamo di “uomo” per riferirci all’essere umano in generale, non stiamo solo scegliendo una parola comoda: stiamo invisibilizzando le donne, le persone non binarie, e ogni altra soggettività che esce dai binari di quella “norma”.
L’infanzia sotto la lente del linguaggio
Nel mondo dell’educazione, dove ogni parola ha il potere di costruire o distruggere, il linguaggio può agire come strumento di cura o come arma sottile. Frasi come “comportati da femmina” oppure “sii un uomo”, pronunciate con leggerezza da adulte e adulti in buona fede, agiscono come micro-ferite identitarie. Impongono modelli, limitano possibilità, soffocano esplorazioni.
Pensiamo anche ai dizionari scolastici o ai libri di lettura: quante volte i protagonisti attivi sono maschi e le femmine ruotano intorno a loro come figure accessorie? Quante volte i sentimenti vengono attribuiti alle ragazze e la razionalità ai ragazzi? Queste non sono scelte linguistiche innocenti: sono narrazioni di potere.
L’educazione linguistica è (anche) educazione emotiva
Chi è a contatto con l’infanzia e l’adolescenza — genitrici, genitori, insegnanti, educatrici ed educatori — ha una responsabilità straordinaria: quella di offrire un vocabolario che permetta l’esistenza. Non esistono parole neutre: esistono parole che includono e parole che escludono. E se il linguaggio non nomina certe realtà — come l’orientamento affettivo, le identità di genere non conformi, la disabilità, il lutto, la rabbia, il dolore — allora quelle realtà diventano invisibili, indicibili, innominabili.
Educare al linguaggio non è una questione di “politicamente corretto”. È una questione di accesso: all’identità, alla possibilità di raccontarsi, alla dignità.
Parole che feriscono e parole che curano
Il linguaggio può discriminare in maniera esplicita — con insulti, etichette, soprannomi derisori — ma molto spesso lo fa in maniera più sottile: attraverso l’uso del maschile come universale, la non menzione, la formulazione stereotipata.
Alcuni esempi:
Dire “i bambini devono imparare a controllare le emozioni” implica una generalizzazione pericolosa. Chi sono i bambini? Solo i maschi? E davvero le emozioni devono essere controllate, o piuttosto comprese e accolte?
Usare espressioni come “figlio illegittimo”, ancora presenti in molti contesti legali o burocratici, carica di vergogna e giudizio una nascita che non ha nulla di illegittimo.
Parlare di “diversamente abile” invece di dire persona con disabilità sposta l’accento sull’eccezione, sulla differenza, sulla performance, più che sul rispetto e sull’accessibilità.
Queste parole non solo descrivono: creano cornici, impongono ruoli, determinano lo spazio di libertà dentro cui ogni bambina, bambino e adolescente potrà (o non potrà) muoversi.
Il linguaggio è un atto politico
Scegliere di usare il linguaggio di genere — dire bambine e bambini, genitrici e genitori, educatrici ed educatori — non è un vezzo. È un atto di giustizia simbolica. Significa rifiutare l’invisibilizzazione, rifiutare la norma come unica via, e creare spazio per tutte le soggettività. Significa anche decostruire, insieme, le parole che ci sono state messe in bocca da una cultura che non ci ha insegnato a nominarci liberamente.
Il linguaggio è una forma di educazione. E ogni volta che scegliamo una parola, stiamo educando.
Il linguaggio non è neutro. E nemmeno noi.
Chi lavora con l’infanzia, chi cresce figlie e figli, chi insegna, sa bene quanto sia importante offrire narrazioni alternative. Eppure spesso si sottovaluta la potenza delle parole. La sfida oggi è duplice: da una parte riconoscere gli automatismi linguistici che perpetuano discriminazione; dall’altra avere il coraggio di disinnescarli.
Il punto non è parlare perfettamente “inclusivo” (termine che a me non piace). Il punto è ascoltare, chiedere, imparare. Essere disposte e disposti a mettere in discussione il nostro linguaggio per far emergere quello delle nuove generazioni. Loro non hanno bisogno che insegniamo loro chi essere. Hanno bisogno che creiamo spazi linguistici sicuri in cui poterlo scoprire.
Le parole sono sassi. Ma anche semi.
Ogni parola che scegliamo — o evitiamo — lascia un segno. Alcune feriscono, altre fioriscono. È il momento di domandarsi: quali parole stiamo piantando oggi nel terreno della crescita?