Il linguaggio non è solo un mezzo per descrivere la realtà: la plasma, la modella e la giustifica. Nella linguistica cognitiva, il concetto di framing – inquadramento – spiega bene questo fenomeno: le parole che scegliamo determinano il modo in cui comprendiamo un evento e ne definiamo i ruoli.
Quando si parla di violenza – e non solo – il linguaggio non è mai neutro. Spesso è costruito in modo da assolvere chi la esercita e, al contrario, insinuare dubbi su chi la subisce. Questo avviene attraverso strategie linguistiche sottili, che passano inosservate ma incidono profondamente sul modo in cui percepiamo l’abuso.
Soggetti e agenti: chi fa cosa?
Uno degli strumenti più potenti con cui il linguaggio normalizza la violenza è la cancellazione dell’agente, ovvero di chi la commette.
Pensiamo alla frase: “Una donna è stata st*prata.”
Grammaticalmente, il soggetto della frase è la donna. Ma chi ha agito la violenza? Chi è il responsabile? Non viene menzionato.
Questo tipo di costruzione linguistica è ciò che la linguista feminista Julia Penelope ha definito “passivizzazione della violenza”: il soggetto della frase diventa la persona che subisce il danno, mentre l’agente scompare, sfumando la responsabilità.
Al contrario, se dicessimo: “Un uomo ha stuprato una donna.”, l’enfasi si sposterebbe sull’autore del crimine. Ma questa costruzione è rara nei media e nel linguaggio comune, perché la nostra cultura ha interiorizzato narrazioni che proteggono chi esercita violenza e rendono meno visibile la loro responsabilità.
Lo stesso fenomeno si applica ad altre forme di violenza:
“Un bambino è stato molestato.” (Ma chi lo ha molestato?)
“Una ragazza è stata picchiata dal fidanzato, ma lo ha perdonato.” (Perché l’attenzione è sul suo perdono e non sull’aggressore?)
“La vittima non ha denunciato subito.” (Perché il problema diventa il comportamento della vittima e non quello di chi ha commesso la violenza?)
Il modo in cui strutturiamo le frasi incide sul modo in cui pensiamo. E se il linguaggio cancella l’agente della violenza, anche la società farà lo stesso.
Le metafore della violenza: dalla giustificazione alla deresponsabilizzazione
Il linguista George Lakoff ha dimostrato come le metafore modellino il nostro pensiero. Nel caso della violenza, il linguaggio è pieno di metafore che la giustificano e la banalizzano.
Un esempio chiaro è l’uso di termini come “delitto passionale”, che suggerisce che la violenza sia un effetto inevitabile di un sentimento incontrollabile. Oppure il termine “raptus”, che fa sembrare gli atti di violenza come episodi improvvisi, scollegati da un contesto di abuso sistematico e di dinamiche di potere.
Ma la violenza non è mai un raptus, non è mai un colpo di follia. È il risultato di una cultura che la tollera e la giustifica.
Altre metafore rafforzano questa narrazione:
“Era troppo geloso.” → La gelosia diventa una spiegazione accettabile per la violenza, invece di essere riconosciuta come controllo e possesso.
“Aveva bevuto troppo.” → L’alcol diventa la causa, invece della scelta consapevole di agire violenza.
“Una relazione tossica.” → Una relazione non è tossica di per sé, è una persona che agisce violenza su un’altra. Ma questa costruzione sposta il focus dall’aggressore alla dinamica, sfumando le responsabilità.
Il linguaggio e la violenza contro bambine e bambini
C’è un punto cruciale che viene spesso ignorato quando si parla di violenza: quando la vittima è una persona adulta molte persone si affrettano a dire “se l’è cercata”, insinuando che il suo comportamento abbia in qualche modo causato la violenza. Ma quando la vittima è una bambina o un bambino?
Anche in questi casi, il linguaggio trova modi per minimizzare e deresponsabilizzare. Si sente dire:
“Ha frainteso.” → Si insinua che un bambino possa fraintendere un abuso, come se fosse un errore di interpretazione.
“Era molto affettuoso con lui.” → Si attribuisce alla vittima un comportamento che potrebbe aver incoraggiato l’aggressore.
“Un’infanzia difficile ha segnato l’aggressore.” → Quando un adulto agisce violenza su un bambino, si cerca spesso di spiegare il suo comportamento con il suo passato, quasi a giustificarlo.
Queste strategie linguistiche spostano il problema dalla violenza in sé a fattori esterni, rendendola meno chiara e meno condannabile.
Cambiare il linguaggio per cambiare la cultura
Le parole non sono innocue. Influenzano il modo in cui pensiamo, il modo in cui percepiamo la violenza, il modo in cui la società reagisce.
Cambiare il linguaggio non significa solo essere più politicamente corretti – un’espressione spesso usata per screditare chi riflette sull’uso delle parole – ma significa modificare le strutture di pensiero che sostengono la violenza.
Iniziare a dire “Un uomo ha ucciso una donna” invece di “Una donna è stata uccisa”, “Un adulto ha abusato di un bambino” invece di “Un bambino ha subito abusi”, significa ridare centralità alla responsabilità di chi agisce violenza.
Significa smettere di accettare narrazioni tossiche che deresponsabilizzano chi fa del male e colpevolizzano chi lo subisce.
Se le parole creano la realtà, usiamole per cambiarla.