Riflessioni

Troppi libri, poche lettrici e pochi lettori: l’editoria è ancora cultura o solo mercato?

L’editoria ha sempre oscillato tra la sua anima culturale e le esigenze di mercato. Si presenta come un mondo raffinato, un luogo di confronto intellettuale e di diffusione del sapere, ma osservandolo con attenzione emergono dinamiche più complesse. A volte sembra una grande famiglia – disfunzionale –, con le sue alleanze, le sue gerarchie e i suoi rituali, ma anche con tensioni sotterranee e compromessi che non sempre mettono al centro la qualità.

Si pubblicano più libri che mai, eppure la lettura non cresce. I libri sugli scaffali hanno la durata di uno yogurt, le librerie sono invase da novità che si dissolvono rapidamente e la distribuzione premia più l’uscita di un titolo che la sua effettiva capacità di radicarsi nel tempo. Il mercato si muove a ritmi frenetici, e la domanda è inevitabile: è ancora cultura o solo uno dei tanti sistemi di produzione?

Un’editoria che punta sulla quantità, non sulla qualità

Ogni anno si pubblicano decine di migliaia di titoli, ma quanti di questi meritano davvero di esistere? L’editoria di oggi è schiava del numero: più libri, più vendite, più titoli in catalogo, ma non necessariamente più valore.

Gli editori si vantano di avere cataloghi sempre aggiornati, ma sappiamo bene che dietro questa vastità si nasconde un compromesso: troppi libri prodotti in modo rapido, con poca cura formale e contenutistica. I testi sono più semplici, il linguaggio si appiattisce, il ritmo della scrittura è pensato per un consumo veloce piuttosto che per un’esperienza profonda.

La qualità dei libri ne risente su più fronti:

  • Strutture narrative semplificate.
  • Libri che durano poco sul mercato, sostituiti rapidamente da nuove uscite.
  • Autrici e autori sfruttati, spesso mal pagati e costretti a pubblicare senza il giusto tempo di maturazione.

Se il vero obiettivo fosse la cultura, non vedremmo una produzione così frenetica. Invece i libri non devono durare, devono vendere in fretta.

L’editoria per l’infanzia: creatività o sovrapproduzione inutile?

L’editoria per l’infanzia sembra un settore più florido rispetto agli altri, eppure anche qui regnano le stesse dinamiche. Si pubblicano troppi libri per bambine e bambini, spesso senza un reale valore aggiunto.

Perché?

  • Perché vendono bene;
  • Perché sono facili da produrre, con formule ripetitive che garantiscono successo commerciale.
  • Perché sono un mercato sicuro, dove anche titoli mediocri trovano spazio.

Ma quanti libri per l’infanzia sono realmente innovativi, ben scritti e ben illustrati? Pochi. La maggior parte ricalca schemi già visti, riproducendo stereotipi o trattando temi di moda senza reale profondità.

Anche qui la logica della quantità domina su quella della qualità.

La distribuzione editoriale: un sistema che soffoca il valore

Se un tempo il successo di un libro si costruiva con il passaparola e il tempo, oggi tutto si gioca nei primi mesi di uscita. La distribuzione editoriale è diventata un meccanismo spietato che premia chi “fa rete” e chi diventa “visibile” (due concetti di oggi che mi fanno venire il prurito alle mani).

Un libro, per sopravvivere, deve:

  • Avere un lancio forte con promozione immediata.
  • Vendere subito, altrimenti viene ritirato dagli scaffali.
  • Essere promosso da influencer, che ormai sono i veri arbitri del successo editoriale.

Non si guadagna più sulla vendita, ma sulla presenza in libreria. I distributori fanno affari sull’uscita del libro, non sul suo destino successivo. Così, anche i titoli di qualità, se non generano numeri immediati, finiscono nel dimenticatoio.

Influencer e marketing: chi decide cosa leggiamo?

Non che un tempo fosse tutto perfetto, ma almeno i libri avevano più autonomia. Oggi, invece, la loro fortuna dipende spesso da chi li promuove online. Gli influencer letterari sono diventati i nuovi aghi della bilancia, capaci di decretare successi e fallimenti con un semplice video.

Il marketing ha da diversi anni un ruolo nell’editoria, ma ora la narrativa si piega alle logiche della viralità, producendo libri pensati per essere citati sui social più che per essere ricordati nel tempo.

E mentre tutto diventa più immediato, anche il linguaggio ne risente:

  • Strutture delle frasi più semplici, per favorire una lettura veloce.
  • Meno costruzioni complesse, meno spazio alla profondità del pensiero.
  • Più accessibilità, ma anche più povertà espressiva.

La lettura deve essere accessibile a tutte e tutti, ma la semplificazione eccessiva rischia di impoverire la lingua stessa.

L’ipocrisia dell’industria editoriale

Se c’è una cosa che nell’editoria mi infastidisce, è la sua doppia morale. Si presenta come un mondo raffinato e solidale, ma dentro è un’arena di interessi contrastanti.

Le fiere del libro sono l’esempio perfetto: sorrisi, presentazioni scintillanti, collaborazioni apparenti. Ma la realtà è ben diversa: se gli editori (anche quelli più piccoli) potessero eliminarsi a vicenda, lo farebbero senza esitazione.

E poi c’è chi si muove con disinvoltura tra ambiti professionali apparentemente inconciliabili: da un lato rafforza stereotipi e modelli problematici, dall’altro si presenta come editore impegnato e promotore di valori progressisti. Fare l’editore non per autentica vocazione ma per costruirsi un profilo più accettabile e credibile, non è un atto culturale, ma una strategia di immagine. E in un’industria che ama definirsi etica e consapevole, sarebbe più onesto scegliere una posizione chiara, piuttosto che oscillare tra opportunità di mercato e aspirazioni intellettuali di facciata.

È una questione di coerenza più che di morale e questa dinamica, purtroppo, non riguarda solo l’editoria: se si sceglie di essere imprenditrici e imprenditori, va benissimo, ma senza cercare di mascherarsi da intellettuali impegnati per convenienza. Quello che infastidisce è il tentativo di sfruttare il mondo editoriale come una sorta di “lavatrice etica”, un modo per ripulire la propria immagine e accreditarsi in ambienti culturalmente più prestigiosi.

Negli anni, ho imparato a riconoscere chi usa l’editoria come una passerella o un esercizio di reputazione. Da queste dinamiche mi tengo distante: la cultura, per me, è sostanza, non scenografia.

Un libro non è una scadenza: il valore della lettura nel tempo

L’editoria dovrebbe avere una funzione culturale, ma oggi sembra più preoccupata di massimizzare i ricavi. Si pubblica troppo e si legge sempre meno. Ma un libro non è un prodotto da scaffale. Un libro è un’idea, un segno che deve durare.

Pubblicare meno e meglio non sarebbe solo una scelta più etica, ma l’unico modo per restituire dignità a un mondo che, un tempo, provava a creare cultura invece che inseguire il mercato.

Se l’editoria si accontenta di esistere senza lasciare tracce nel tempo, allora ha già rinunciato al proprio ruolo culturale.