In un’epoca in cui l’infanzia è al centro del “marketing culturale” (non è forse un ossimoro?) e dell’interesse pubblico, l’editoria per l’infanzia sembra oscillare su un crinale sottile: da un lato, la promessa di un’educazione emotiva, cognitiva e sociale di qualità; dall’altro, la pressione crescente del mercato, che trasforma il libro in un prodotto da vendere, più che un’opera da offrire.
Un settore che cresce, ma verso dove?
L’editoria per l’infanzia e l’adolescenza è uno dei pochi comparti editoriali a registrare, anno dopo anno, una crescita costante. Le librerie pullulano di titoli coloratissimi, copertine laminate, personaggi seriali e collane tematiche. Ma a fronte di questo florilegio editoriale, bisogna chiedersi: quanto è autentica la spinta educativa? E quanto è invece dettata da logiche di profitto e marketing?
L’evoluzione del settore è evidente: i cataloghi si riempiono di libri su emozioni, rispetto, educazione alle differenze, sostenibilità. Temi necessari, attuali, giusti. Ma l’adozione massiva di queste parole chiave da parte delle case editrici principali ci impone una riflessione: è vero impegno o è storytelling editoriale, scelta imprenditoriale?
Libri per crescere o prodotti da scaffale?
C’è una differenza sottile ma fondamentale tra un libro che accompagna la crescita e uno pensato per vendere bene. I primi si riconoscono per profondità, rigore, rispetto dell’infanzia come soggetto pensante. I secondi rispondono invece alle tendenze.
Il rischio è quello di produrre contenuti “faciloni”, costruiti a tavolino, che vestono di “inclusività” e pedagogia solo per accaparrarsi una fetta di mercato sensibile. Basta sfogliare alcune pubblicazioni per rendersi conto che non sempre l’estetica va di pari passo con l’etica.
Eppure, molte persone si fidano. Insegnanti, genitrici, genitori, educatrici ed educatori spesso scelgono libri sull’onda di una narrazione accattivante: “questo libro aiuta a parlare delle emozioni”, “quest’altro insegna la gentilezza”. Ma quanti di questi testi sono stati pensati davvero con l’infanzia al centro e quanti invece parlano dall’alto verso il basso, come se chi legge fosse solo un contenitore da riempire?
La funzione sociale dell’editoria per l’infanzia
L’editoria che si rivolge a bambine, bambini e adolescenti ha un potere immenso: contribuisce a costruire immaginari, norme, visioni del mondo. È un’industria culturale che plasma identità e rappresentazioni. Per questo dovrebbe essere trattata con la stessa serietà con cui si affrontano i programmi scolastici o le politiche educative.
Un libro per l’infanzia non è uno scherzo. È un mezzo di accesso alla realtà e alla sua interpretazione. Quando si pubblica un libro su un tema delicato – come il lutto, la malattia in famiglia, la violenza domestica, l’identità di genere o la separazione – non si sta solo facendo cultura, si sta toccando la vita reale delle persone.
Eppure, molti libri che si propongono come strumenti per affrontare certi argomenti finiscono per semplificare, ridurre, a volte addirittura edulcorare. Come se l’infanzia fosse un terreno da proteggere dalla verità, anziché da accompagnare con verità.
L’invisibilizzazione delle minoranze
C’è poi un altro tema cruciale che riguarda la rappresentazione. Chi scrive? Chi illustra? Chi pubblica? Spesso, anche nei libri “inclusivi” (parola terribile), mancano del tutto le voci realmente interessate. Le narrazioni su famiglie omogenitoriali, esperienze migratorie, corpi non conformi, neurodivergenze o disabilità sono scritte da persone esterne a quelle realtà. E si vede.
Perché non basta raccontare una storia “diversa”, serve che quella storia sia vera, vissuta, incarnata. L’editoria mainstream fatica ancora ad aprirsi a chi ha vissuto sulla propria pelle esclusione e marginalità. E questo è un problema politico, prima ancora che culturale.
L’urgenza di un’editoria indipendente e consapevole
Le case editrici indipendenti – molte delle quali guidate da donne, da persone queer, da persone che vivono sulla propria pelle le contraddizioni del nostro tempo – stanno facendo un lavoro silenzioso ma potente. Con tirature piccole, budget ridotti e una distribuzione faticosa, producono libri onesti, profondi, talvolta rivoluzionari.
Eppure, anche questo spazio rischia di essere contaminato. La mia speranza è che queste realtà non cedano alla trappola della sovrapproduzione, alimentata spesso dalla pressione dei social, dalle mode educative che durano un algoritmo, e – diciamolo – da chi si approfitta del loro entusiasmo e della loro visibilità per ottenere prodotti a basso costo o autopromozione camuffata da collaborazione.
Sempre più spesso, anche le piccole case editrici sembrano assomigliare a micro-imprese industriali, dove il ritmo incalza, la novità vale più della qualità e la logica della presenza costante – su Instagram, nei podcast, nelle fiere – prevale sulla cura lenta del contenuto. E questo è un vero peccato.
Non tutto ciò che è indipendente è automaticamente virtuoso. Anche qui serve uno sguardo vigile, autocritico, capace di dire no alla quantità per preservare la profondità. Perché fare cultura non è produrre oggetti, è generare pensieri, alternative.
Quando un libro si traveste da carezza, ma pizzica
Nessun genitore, insegnate, dovrebbe accontentarsi di una bella copertina o di una quarta di copertina promettente. Dietro ogni libro c’è una visione del mondo. Chiediamoci: quale mondo stiamo costruendo? E chi ne fa parte davvero?
Perché non è tutto oro quel che brilla nei libri per l’infanzia. E a volte, sotto una narrazione dolce e colorata, si nasconde solo la voglia di vendere. Non di educare e nemmeno di ascoltare.