LGBTQIA+

La fatica non è essere una persona omosessuale. È esserlo in una società che ti vuole spezzare

Immagina di svegliarti ogni giorno con la consapevolezza che chi sei, chi ami, come guardi il mondo, è oggetto di giudizio, sospetto, esclusione. Immagina che la tua esistenza, così com’è, venga letta dalla società come un errore da correggere, una colpa da redimere, un eccesso da contenere. Non è difficile capire quanto possa essere pesante essere una persona omosessuale. Ma è proprio questo il carico invisibile che molte persone lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali si portano addosso ogni giorno. Non è l’orientamento sessuale o l’identità di genere a essere faticosa. È il muro contro cui si sbatte ogni volta che si cerca di vivere apertamente e con dignità in una società intrisa di omofobia, bifobia e transfobia.

La società omofoba come sistema: non è solo “gente che odia”

Quando parlo di omofobia non mi riferisco solo all’insulto urlato in strada o all’aggressione fisica, eventi gravi ma spesso percepiti come “eccezionali”. Il vero problema è molto più sottile e strutturale. È l’omofobia sistemica: quel tessuto culturale fatto di stereotipi, silenzi, leggi manchevoli, norme non dette, che ti fa sentire perennemente fuori posto.

È nei libri scolastici dove l’amore è solo quello tra un uomo e una donna. Nelle battute “scherzose” a scuola che nessuna e nessuno si permette di contrastare. Nelle famiglie che usano parole come “fase”, “scandalo”, “delusione”. Nelle aziende che ancora faticano a garantire parità reale. È nella sanità che non si forma adeguatamente su corpi e bisogni LGBTQIA+ e nella politica che strumentalizza le vite queer come bandiere ideologiche.

Le micro-ferite quotidiane: il peso del dover spiegare, giustificare, educare

Vivere da lesbica, gay, bisessuale, trans o queer in una società ostile significa anche dover continuamente spiegare la propria esistenza. A genitrici e genitori, a insegnanti, a colleghe e colleghi, perfino a persone sconosciute.

«Ma sei sicura che ti piacciono solo le ragazze?», «Non è che sei solo confusa?», «Ma chi è l’uomo nella coppia?», «Hai fatto coming out con i nonni?». Queste domande non sono solo invadenti, sono estenuanti. Perché portano con sé l’idea che tu debba sempre rendere conto della tua esistenza. Che ci sia qualcosa da chiarire, da normalizzare, da rendere “comprensibile” secondo gli schemi eterosessuali.

Ed è proprio questo sforzo continuo a generare una forma di fatica profonda che si accumula negli anni e lascia cicatrici. A volte invisibili, ma sempre reali.

Le persone giovani LGBTQIA+ e l’ambiente educativo: quando la scuola fa più male che bene

Per chi cresce scoprendosi queer, spesso l’ambiente scolastico non è uno spazio sicuro, ma un campo minato. Non si tratta solo di bullismo – che è ancora altissimo – ma della totale assenza di riconoscimento.

Essere persone invisibili è tanto violento quanto essere attaccate e attaccati. Se nessuna e nessuno nomina l’amore tra persone dello stesso genere, se le famiglie omogenitoriali non esistono nei programmi, se il corpo trans non viene mai raccontato come corpo legittimo, allora il messaggio è chiaro: “Tu qui non esisti”.

Questo vale anche per molte figure adulte di riferimento. Insegnanti, educatrici, genitori – non per cattiveria, ma per ignoranza, per paura di dire la cosa sbagliata, per timore di “esporsi” – scelgono il silenzio. Ma il silenzio è una ferita che brucia.

La famiglia: luogo di origine o origine del trauma?

Per molte persone LGBTQIA+, la violenza più profonda non arriva dalla strada, ma da casa. Famiglie che minacciano, che cacciano, che negano, che rinchiudono in “terapie riparative” condotte da preti o psicologi compiacenti. Famiglie che ti chiamano “delusione”, che fanno finta di non vedere, che evitano “l’argomento” pur di non rovinare la reputazione.

La violenza familiare non è sempre fisica. A volte si manifesta come gelo emotivo, altre come sarcasmo continuo, altre ancora come condanna silenziosa. Ma ogni volta è un messaggio: “Tu, così come sei, non vai bene”.

E questo è un veleno che si insinua nell’autostima, nei legami futuri, nella percezione di sé. Perché se chi avrebbe dovuto proteggerti ti ha fatto sentire sbagliata o sbagliato, allora passerai metà della vita a cercare di disinnescare quel meccanismo emotivo.

Essere se stesse e se stessi non è solo un atto individuale ma collettivo

In un contesto ostile, vivere apertamente la propria identità è un atto di resistenza. Non è “solo” essere lesbiche, gay, bisessuali, trans o queer. È affermare che il tuo corpo, i tuoi desideri, la tua sensibilità, hanno valore. È gridare che esisti e non hai nulla da giustificare.

Questo non significa romanticizzare il dolore. Significa riconoscere che la libertà di essere chi si è, in una società che ti vuole compiacente, è un cammino faticoso e collettivo. Nessuna e nessuno si salva da sola o da solo. Per questo è necessario che il mondo intorno – famiglie, scuole, spazi pubblici – si prenda la responsabilità di non essere più spettatore neutrale, ma parte attiva nel cambiamento.