Educazione affettiva e sessuale Violenza

Sharenting: un fenomeno rischioso per tutte e tutti i minori

Ci sono immagini che sembrano innocue: una bambina che dorme con il peluche preferito, un bambino che fa il bagno in piscina, una figlia che soffia le candeline. Istanti teneri, autentici, spesso commoventi. Istanti che finiscono – con pochi clic – sulle principali piattaforme social. Questo gesto ha un nome: sharenting, cioè la condivisione online (sharing) della genitorialità (parenting).

In pratica, è l’abitudine di pubblicare foto e video delle proprie figlie e dei propri figli sui social. Sembra un modo per raccontare la quotidianità, far vedere alle nonne e ai nonni i progressi di chi cresce, tenere un diario della famiglia. Ma è davvero solo questo?

In realtà, lo sharenting è un fenomeno culturale complesso, che merita attenzione e consapevolezza. Perché riguarda la costruzione dell’identità, la privacy, la sicurezza. Ma anche l’educazione emotiva e affettiva, il consenso e la relazione tra adulte/i e minori.

Ma quindi è sbagliato pubblicare foto delle proprie figlie e dei propri figli?

Non è una questione di “giusto o sbagliato”. È una questione di domande da porsi. Ad esempio:

Mio figlio o mia figlia mi ha chiesto di pubblicare questa foto?
Cosa penserà di questa immagine tra dieci anni?
È un momento intimo, vulnerabile, imbarazzante?
Sto rispettando la sua dignità o sto solo soddisfacendo un mio bisogno?
Pubblicare contenuti che riguardano persone in età evolutiva significa decidere al posto loro cosa mostrare e come. Significa lasciare online tracce permanenti della loro vita – che loro magari non approveranno mai. E significa, in alcuni casi, esporle a rischi molto concreti.

Il pericolo più invisibile: la pedopornografia online

Molte persone pensano che basti “non mostrare il viso” per essere al sicuro. Ma purtroppo non è così. Oggi esistono reti criminali che raccattano immagini dai social – anche quelle apparentemente innocue – per inserirle in circuiti di pedopornografia. E non serve pubblicare nudi o contenuti esplicitamente sessualizzati: bastano immagini in costume, in pigiama, a volte solo in posa.

Chi commette questi reati modifica, decontestualizza, rielabora le immagini. E spesso, lo fa senza che chi ha postato si accorga di nulla. Questo succede perché la rete non dimentica: una volta online, ogni contenuto può essere salvato, copiato, manipolato. Non ci appartiene più.

Parlare di sharenting, quindi, significa anche fare prevenzione contro gli abusi digitali. Non per generare paura, ma per allenare uno sguardo critico.

Identità rubate: il furto digitale comincia nell’infanzia

Oltre alla pedopornografia, esiste un altro rischio meno noto ma altrettanto grave: il furto di identità digitale. Quando postiamo online nome, cognome, data di nascita, scuola frequentata, abitudini quotidiane, stiamo offrendo – spesso inconsapevolmente – un pacchetto completo di informazioni. Informazioni che possono essere utilizzate per creare profili falsi, aprire account a nome di chi non ha mai dato il consenso, compiere truffe o costruire un’identità online parallela.

Nel tempo, queste informazioni possono essere usate per finalità illecite, ma anche semplicemente per predeterminare il modo in cui una persona sarà riconosciuta e tracciata online. I social diventano, così, un archivio digitale che precede la persona reale, spesso ingombrante, a volte ingiusto.

Lo sharenting diventa quindi una forma di esposizione che interferisce con il diritto a costruire se stesse e se stessi liberamente, senza condizionamenti o pregiudizi generati da post vecchi di anni.

Chi decide cosa va condiviso?

Lo sharenting solleva anche un tema più ampio: il diritto di ogni persona a raccontarsi da sola. Questo vale per tutte e tutti, ma è ancora più importante per chi sta costruendo la propria identità. Pubblicare continuamente immagini, aneddoti, scene quotidiane delle persone in età evolutiva significa, di fatto, modellare il modo in cui saranno percepite dalle altre persone – e da se stesse e se stessi.

Anche l’educazione affettiva e sessuale passa da qui: dal diritto al corpo, alla parola, al silenzio. Ogni volta che decidiamo di mostrare il corpo di una figlia o di un figlio – anche con tenerezza – stiamo mandando un messaggio. Quale? Che il corpo può essere raccontato da qualcun altro? Che non serve il permesso? Che l’intimità è sempre condivisibile?

Ma lo fanno tutte e tutti, che male c’è?

È vero: è una pratica molto diffusa. Ma proprio perché lo è, non possiamo più permetterci di non rifletterci su. Le abitudini culturali cambiano, si trasformano. E alcune, oggi, ci sembrano normali (normalizzate) solo perché sono entrate nel nostro modo di comunicare. Ma “normalità” non significa che sia giusta.

Ci sono immagini che fanno male senza urlare. Ci sono storie che vengono raccontate al posto di chi le vive. Ci sono sorrisi immortalati che nascondono pianti, rabbie, emozioni che nessuno ha chiesto di esibire.

Chi ha il potere di raccontare chi?

Ogni narrazione è un atto di potere. E lo sharenting, anche se inconsapevolmente, esercita un potere: quello di decidere chi mostrare, come mostrarlo, quando e perché. Ma le persone più giovani hanno diritto a decidere cosa dire di sé – e cosa no.

Questo vale anche nei contesti educativi e scolastici: troppe volte si scattano foto durante le attività, senza nemmeno avvisare. Si pubblicano video di performance, recite, sport, senza chiedere davvero il permesso. Anche chi lavora con l’infanzia e l’adolescenza ha una responsabilità enorme in questo senso: creare spazi sicuri, anche nel digitale.

Il diritto a non essere contenuto

Ci siamo mai chieste e chiesti se una figlia, un nipote, un alunno, vorrà che quella foto sia ancora online tra cinque, dieci, vent’anni? Ci siamo mai interrogate e interrogati sul diritto di non lasciare tracce?

Sharenting non è solo una questione di social media. È una questione di etica, consapevolezza, relazione. Educare non è solo proteggere: è anche rinunciare a raccontare tutto, proprio per lasciare spazio a chi crescerà.

Lo spazio sicuro non è dove tutti possono entrare. È dove si può scegliere chi far entrare.