Insegnare a riconoscere e gestire le emozioni dovrebbe essere una delle colonne portanti. Eppure, in Italia, l’educazione emotiva nelle scuole rimane relegata ai margini, un’utopia che fatica a diventare realtà. Si parla di competenze cognitive, di programmi scolastici da potenziare, di performance e valutazioni, ma il mondo emotivo continua a essere lasciato ai margini, come se fosse una componente secondaria, un lusso o, peggio, una debolezza.
Il paradosso del sistema educativo
Viviamo in un’epoca in cui si enfatizza l’importanza dell’intelligenza emotiva, eppure il nostro sistema scolastico continua a ignorarla. Le neuroscienze hanno dimostrato come le emozioni siano fondamentali nei processi di apprendimento e nella costruzione dell’identità. Eppure, nelle aule, si continua a dare priorità alla logica e alla memorizzazione, trascurando l’alfabetizzazione emotiva.
Non è un caso. Il modello educativo italiano affonda le sue radici in un’idea di istruzione ancora ancorata a schemi ottocenteschi, in cui l’emotività viene vista come un elemento da contenere, più che da coltivare. Il risultato? Generazioni di persone giovani (e adulte) che faticano a dare un nome a ciò che provano, che si trovano prive di strumenti per gestire frustrazione, ansia, paura, senza alcuna guida per trasformarle in risorse.
Educare alla vita, non solo alla conoscenza
L’educazione non dovrebbe limitarsi alla trasmissione di nozioni. Ogni giorno, nelle scuole, si formano relazioni, si sperimentano successi e fallimenti, si vivono conflitti e si attraversano paure. È qui che si dovrebbe imparare a coltivare l’empatia, a comprendere il dolore, a riconoscere la rabbia senza lasciarsene travolgere. Ma se nessuno lo insegna, si cresce con l’idea che le emozioni siano un intralcio, qualcosa da reprimere o da nascondere.
Alcuni paesi lo hanno capito da tempo. In Finlandia, l’educazione emotiva è parte integrante del curriculum scolastico. In Danimarca, si insegna l’empatia sin dai primi anni, con programmi strutturati per favorire il dialogo emotivo tra pari. In Spagna, alcune regioni hanno introdotto corsi obbligatori di gestione delle emozioni. In Italia, invece, tutto è affidato alla buona volontà di qualche insegnante illuminata o illuminato e all’iniziativa di singoli istituti.
Le conseguenze di questa assenza
A cosa serve una generazione di persone che ottiene risultati eccellenti nei test accademici se poi non sa gestire un conflitto, non è in grado di affrontare un fallimento o teme la propria interiorità? Possiamo davvero considerare completa un’educazione che insegna a risolvere equazioni ma non a comprendere il dolore di chi ci sta accanto? L’intelligenza emotiva non è un lusso, è una competenza fondamentale per la vita.
L’assenza di un’educazione emotiva nelle scuole strutturata ha conseguenze evidenti. Disturbi d’ansia, difficoltà nella gestione della rabbia, l’incapacità di affrontare il fallimento sono segnali che non possiamo più ignorare. Se non si impara a navigare nel proprio mondo interiore, le emozioni rischiano di diventare un peso ingestibile, con effetti che si riflettono in ogni ambito della vita.
Le scuole dovrebbero essere il primo spazio in cui si impara a costruire il proprio equilibrio emotivo. E invece? Ci troviamo con aule in cui ancora si punisce il pianto, si zittisce il disagio, si etichetta come problematico chi esprime con intensità la propria interiorità. Si preferisce controllare le emozioni piuttosto che insegnare a comprenderle.
Verso un cambiamento necessario
Cambiare rotta è possibile, ma serve una presa di coscienza collettiva. Serve che l’educazione emotiva diventi parte integrante del percorso scolastico, che non sia lasciata al caso o alla sensibilità di poche persone. Serve che la scuola si trasformi in uno spazio in cui la crescita interiore sia riconosciuta tanto quanto quella accademica.