Cultura psicologica Riflessioni

“Eravamo più forti, noi!”. O forse, solo più zitti. Il mito della resistenza al dolore

“Una volta mica ci lamentavamo così.”
“Alla nostra età già lavoravamo.”
“Non avevamo tempo per pensare a come ci sentivamo.” Frasi come queste attraversano le generazioni come sentenze scolpite nella pietra. Chi le pronuncia, spesso donne e uomini appartenenti alle vecchie generazioni, si riferisce al proprio passato come a un’epoca di forza e resilienza. Ma siamo proprio sicure e sicuri che fosse davvero così? Dietro la retorica della resistenza al dolore, si nasconde un sistema culturale che ha premiato il silenzio, normalizzato il dolore e interiorizzato la sofferenza come cifra dell’identità. Più che forti, quelle persone erano addestrate a non dire nulla.

Il mito della durezza emotiva

La narrazione dominante che celebra la durezza emotiva come valore educativo è un prodotto culturale ben preciso. L’infanzia negli anni ’70, ’80 e ’90 era spesso governata da un’autorità genitoriale verticale, dove la disciplina si confondeva facilmente con la paura e l’obbedienza con l’annullamento. I sentimenti venivano visti come un lusso. Le emozioni “scomode” – come la tristezza, la paura, la vergogna – erano etichettate come debolezze da reprimere, non come segnali da ascoltare.

Questa retorica ha costruito una generazione apparentemente forte, ma spesso rotta dentro. Una generazione che oggi, nel ruolo di genitrici e genitori rischia di replicare inconsapevolmente un modello disfunzionale, semplicemente perché è quello che ha conosciuto.

“Si stava peggio ma si diceva meglio”

Molte delle persone adulte di oggi – insegnanti, madri, padri – sono cresciute con una concezione dell’infanzia come “fase di adattamento al dolore”. Se un evento era traumatico, si minimizzava. Se si subiva un abuso o una violenza, si taceva. Se si soffriva, si imparava a farlo in silenzio. Il tutto condito da una grande idealizzazione dell’infanzia.

Questo silenzio non ha generato forza, ma spesso un’incapacità cronica di nominare ciò che si prova, di chiedere aiuto, di riconoscere il proprio disagio e quello altrui. Si è forti quando si sopravvive? O si è forti quando si trova il coraggio di cambiare?

Il privilegio di sentirsi: una nuova educazione

Le nuove generazioni stanno imparando, pur tra mille contraddizioni, a darsi voce. Ragazze e ragazzi che mettono in discussione la famiglia, che parlano di ansia e identità di genere, che osano raccontare la propria sofferenza: non sono fragili. Sono il prodotto di una rivoluzione culturale che sta finalmente restituendo dignità all’interiorità.

Nel lavoro con le e i minori emerge con chiarezza: le richieste non sono mai eccessive, sono semplicemente inascoltate da troppo tempo. La scuola, le famiglie, le istituzioni devono imparare ad accogliere questa nuova sensibilità senza deriderla, senza volerla “raddrizzare”. Perché non è l’espressione del dolore a indebolire una società. È il suo silenziamento.

Resistenza o rimozione?

Chi si ostina a dire “ai miei tempi queste cose non c’erano” probabilmente non ha il coraggio di guardare indietro ( e dentro di sé). Le cose c’erano eccome: violenze taciute, depressioni non curate, abusi normalizzati, ragazzi e ragazze spariti nel disagio senza che nessuno sapesse o volesse sapere.

Resistere non è ignorare il dolore. È attraversarlo, comprenderlo, trasformarlo. Se oggi c’è una generazione che si pone domande, che pretende ascolto, che ha bisogno di parole, non sta facendo un capriccio: sta guarendo anche per chi prima non ha potuto.

L’autocelebrazione della sofferenza come dispositivo culturale

Esaltare la propria infanzia dura, la propria adolescenza “rotta” come se fosse un trofeo è un meccanismo di difesa profondamente radicato. Serve a proteggersi dal dolore non elaborato, a dare senso a una sofferenza che non ha mai avuto spazio. Ma non è cultura. È una gabbia.

Il rischio di questa retorica è che impedisca l’evoluzione. Ogni volta che una madre o un padre dice “a me non è mai servito parlare”, chiude lo spazio per il dialogo. Ogni volta che un’insegnante dice “non è ansia, è solo pigrizia”, contribuisce alla stigmatizzazione del disagio giovanile. E ogni volta che una figura adulta si sente sminuita dal bisogno di aiuto di chi cresce oggi, sta confondendo la propria fragilità non riconosciuta con l’educazione alla forza.

Il privilegio di chi oggi può chiedere aiuto

Oggi c’è chi si rivolge a una terapeuta, chi scrive sui social, chi cerca nei libri o nelle comunità una risposta che non trova in famiglia. Questo non è sintomo di debolezza, ma di possibilità. È il frutto – ancora acerbo – di un nuovo paradigma, quello dell’educazione emotiva, della cura, dell’ascolto.

Eppure, ogni cambiamento genera resistenza. Soprattutto in chi ha investito tutta la propria identità nell’idea di “farcela da solo”.

Serve coraggio anche per dire: “io non ce l’ho fatta”. E forse, è proprio da lì che si ricomincia a costruire un’educazione nuova. Non più fondata sull’eroismo silenzioso, ma sulla possibilità di essere umani.

Non erano più forti. Forse erano solo più sole e soli.