Ogni parola è una piccola pietra lanciata nel lago dell’identità. Quando a pronunciarla è una figura adulta di riferimento – una madre, un padre, una persona che educa – l’eco può durare una vita intera. Non esiste neutralità nella lingua che abita l’infanzia: le parole dette – o non dette – si stratificano nella memoria, formano narrazioni interiori, scolpiscono il senso di sé.
Come le parole dei genitori influenzano i figli non è solo una questione psicologica: è un fenomeno culturale e sociale. È nel linguaggio che l’educazione si fa carne, che i valori si tramandano, che le credenze si installano. Ed è lì che, spesso in modo inconsapevole, si perpetuano stereotipi, si trasmettono paure, si costruisce (o si sgretola) l’autostima.
L’infanzia come terreno narrativo
Nella nostra cultura occidentale, le madri e i padri – o chi ne ricopre il ruolo – sono spesso i primi narratori del mondo. Attraverso le parole costruiscono i confini del possibile: ciò che “si può” o “non si può”, ciò che è “giusto” o “sbagliato”, ciò che “fa per te” o “non fa per te”. Sono proprio queste affermazioni che tracciano mappe invisibili nella coscienza di chi cresce. Non servono grandi gesti: basta un “sei troppo sensibile”, un “non fare la femminuccia”, un “non piangere per queste sciocchezze” per piantare il seme del giudizio, della vergogna, del silenzio.
Al contrario, parole come “ti vedo”, “va bene essere triste”, “hai il diritto di dire no” aprono varchi di autenticità. Legittimano l’esistenza emotiva, l’espressione individuale, la possibilità di sentire.
Linguaggio e potere: chi definisce chi?
Il linguaggio genitoriale è spesso dato per scontato, come se fosse uno sfondo neutro e inevitabile. Ma è un vero e proprio strumento di potere culturale. Le parole che usiamo con chi cresce sono lo specchio delle nostre convinzioni più profonde – sulle emozioni, sul genere, sul valore, sulla fragilità, sulla forza. In una società patriarcale, ad esempio, non è un caso che ancora oggi molte persone dicano a un bambino “comportati da uomo” e a una bambina “sii gentile” come imperativi identitari.
Non stiamo solo educando: stiamo assegnando ruoli, spesso inconsciamente. E ogni ruolo ha un copione linguistico che, se non messo in discussione, rischia di diventare una gabbia.
Le parole che restano (e quelle che mancano)
Molte persone ricordano con precisione chirurgica frasi pronunciate decenni prima da una figura genitoriale. “Non vali niente”, “sei la causa di tutti i miei problemi”, “perché non sei come tuo fratello?”. A volte, il trauma si annida in frasi apparentemente innocue, dette con leggerezza: “sei sempre troppo”, “sei troppo poco”. Eppure, è proprio in queste piccole trafitture che si insinua il senso di inadeguatezza.
Allo stesso modo, è spesso l’assenza a fare rumore. I silenzi sulle emozioni, sulla sessualità, sulle domande scomode. L’omissione può ferire quanto l’aggressione, perché toglie voce, nega il diritto di esistere in certe parti di sé.
La trasmissione culturale delle parole
Il modo in cui parliamo nei confronti di chi cresce è anche un prodotto storico e culturale. Nessun genitore nasce imparato, e nessuna parola è del tutto “neutra”. Ogni frase riflette un’epoca, un contesto, una visione del mondo. Chi oggi cresce figlie e figli è spesso erede di linguaggi appresi in ambienti rigidi, a volte oppressivi. Ma la cultura non è destino: è un territorio modificabile. Ed è proprio nelle parole che possiamo iniziare a cambiare direzione.
Imparare a parlare in modo diverso, più consapevole e rispettoso, è un atto che dobbiamo alle future generazioni (e a noi stesse e noi stessi). Non significa censurarsi o diventare perfetti, ma disimparare ciò che fa male e scegliere con cura ciò che può far fiorire. Significa usare la lingua non per correggere, ma per comprendere. Non per zittire, ma per ascoltare. Non per definire chi l’altrə dovrebbe essere, ma per accogliere chi è.
Parole che accompagnano, non che impongono
Un linguaggio adulto maturo sa fare spazio all’imperfezione, alla vulnerabilità, alla rabbia, al desiderio. Sa accompagnare senza colonizzare, spiegare senza infantilizzare, correggere senza umiliare. Le parole usate con chi cresce sono come fili invisibili che cuciono – o strappano – la fiducia in sé e nel mondo. Le parole possono essere fucili o carezze. Possono essere catene o ali.
Educare non significa insegnare a obbedire, ma a pensare. Non significa “far diventare come noi”, ma sostenere la fioritura dell’altra o dell’altro. E allora il primo passo è ascoltare il modo in cui parliamo.