La violenza sulle donne e sugli uomini, sulle bambine e sui bambini, non è mai stata un fatto privato o individuale: è il risultato di un sistema di potere che per secoli ha legittimato il controllo e l’oppressione di un genere sull’altro. Il patriarcato, come struttura sociale e culturale, ha storicamente normalizzato la violenza, trasformandola in un meccanismo accettato, persino regolato da leggi, religioni e consuetudini.
Quando la violenza era legge
Per millenni, la violenza nelle relazioni familiari e sociali non solo è stata tollerata, ma addirittura regolamentata. Nelle società antiche, le donne e i bambini erano considerati proprietà dell’uomo di famiglia: padre, marito o padrone. Nel diritto romano, ad esempio, il pater familias aveva il diritto di punire con la violenza le persone sotto la sua autorità, comprese la moglie e la prole. Il suo potere era pressoché assoluto, e l’intervento dello Stato in casi di abuso era inesistente.
Anche nel Medioevo, il diritto consuetudinario europeo prevedeva che il marito potesse “correggere” la moglie con la forza, purché non le procurasse ferite gravi. La Chiesa, nel frattempo, rafforzava il concetto di sottomissione femminile, predicando che la donna dovesse obbedire al marito per ordine divino. Persino nelle prime leggi moderne, la violenza domestica veniva giustificata come una questione interna alla famiglia, un affare privato in cui lo Stato non aveva diritto di intervenire.
Il disciplinamento dei corpi e delle menti
Il patriarcato non si è limitato a imporre il dominio fisico, ma ha costruito una narrazione che giustifica la violenza come necessaria al mantenimento dell’ordine sociale. Per secoli, la scienza, la filosofia e la religione hanno diffuso l’idea di una presunta inferiorità delle donne e delle bambine rispetto agli uomini e ai bambini.
Aristotele sosteneva che le donne fossero esseri incompleti, mancanti di razionalità e autocontrollo. Nell’Ottocento, la medicina e la psichiatria parlavano di “isteria femminile”, descrivendo le emozioni e le sofferenze delle donne come disturbi da curare con trattamenti repressivi, spesso violenti. Per secoli, la società ha educato le bambine alla remissività e i bambini al comando, giustificando la subordinazione di un genere rispetto all’altro attraverso modelli culturali e familiari.
Dalla violenza istituzionalizzata alla resistenza
Mentre le leggi e le pratiche sociali hanno codificato la violenza patriarcale, i movimenti di resistenza hanno combattuto per smantellarla. A partire dall’Ottocento, con le prime lotte femministe, la violenza domestica e di genere ha cominciato a essere denunciata come un problema politico, non solo familiare.
Le suffragiste hanno sfidato l’idea che le donne fossero naturalmente sottomesse, mentre nel Novecento i movimenti per i diritti civili hanno combattuto contro il matrimonio forzato, la violenza sessuale e il diritto dei mariti di esercitare il controllo assoluto sulle proprie mogli.
La lenta risposta delle leggi: dalla morale ai diritti umani
È solo negli ultimi decenni che la violenza domestica è stata riconosciuta come una violazione dei diritti umani. Fino a tempi relativamente recenti, molte legislazioni consideravano lo stupro e le violenze in famiglia come questioni di ordine morale e non giuridico. In Italia, ad esempio, lo stupro è stato classificato come un reato contro la morale fino al 1996, anziché un crimine contro la persona.
Un altro passo fondamentale è stata la Convenzione di Istanbul del 2011, il primo strumento giuridicamente vincolante a livello internazionale che ha riconosciuto la violenza contro le donne come una violazione dei diritti umani. Questa convenzione ha stabilito obblighi precisi per gli Stati, tra cui la prevenzione della violenza, la protezione delle vittime e la punizione dei colpevoli. Tuttavia, molti Paesi hanno tardato ad applicare le misure previste, dimostrando quanto il patriarcato sia ancora radicato anche nelle istituzioni moderne.
Il patriarcato esiste ancora, ma non ha più scuse
Oggi, parlare di violenza significa parlare di potere. Anche se le leggi sono cambiate, la mentalità patriarcale continua a giustificare e minimizzare gli abusi. Il concetto di “troppo sensibile”, “esagerata” o “se l’è cercata” affonda le sue radici in secoli di narrazioni costruite per negare il problema e deresponsabilizzare chi esercita la violenza.
Gli effetti di questo sistema si vedono anche nell’educazione: i bambini e le bambine continuano a crescere in un mondo in cui si insegna loro, implicitamente o esplicitamente, che alcune forme di dominio e prevaricazione siano normali. Se vogliamo che la violenza smetta di essere un problema sociale, dobbiamo smontare le strutture culturali che la sostengono, iniziando proprio dall’educazione affettiva ed emotiva nelle scuole e nelle famiglie.
Le parole hanno il potere di contrastare il silenzio che uccide
Il patriarcato si nutre di silenzio, di abitudini accettate, di battute normalizzate e di “è sempre stato così”. Ma il fatto che qualcosa sia sempre esistito non significa che sia giusto. Ogni volta che un’insegnante, una genitrice o un genitore sceglie di parlare di questi temi, di insegnare alle bambine e ai bambini che il rispetto non ha eccezioni, il sistema si incrina.
Oggi sappiamo che la violenza non è naturale, ma costruita. E tutto ciò che è costruito, può essere anche distrutto.