Riflessioni Violenza

“Non trattarlo da diverso, poverino”. L’abilismo da decostruire con le persone con disabilità.

C’è una frase che si sente spesso, pronunciata anche da chi ha le migliori intenzioni: “Non trattiamolo da diverso, poverino.” Dietro questa apparente forma di premura si nasconde un bias culturale potente e invisibile: l’abilismo. Una forma di discriminazione radicata e trasversale che agisce, troppo spesso, proprio nel linguaggio dell’inclusione apparente. L’abilismo è l’idea – implicita o esplicita – che esista un corpo o una mente “normale” e che tutto ciò che si discosta da questo modello debba essere corretto, compatito, nascosto, o al massimo “tollerato”.

Questo articolo si rivolge a genitrici, genitori, insegnanti e chiunque viva o lavori accanto a bambine, bambini e adolescenti, ma anche a chiunque voglia riflettere su un sistema che considera la disabilità come un’eccezione e non come una delle tante sfumature dell’esperienza umana.

L’abilismo è strutturale

Il problema dell’abilismo non si manifesta solo nei casi estremi di bullismo o di esclusione esplicita. È più subdolo, più sistemico. È nella mancanza di rampe, nell’assenza di supporti didattici personalizzati, nella riduzione della disabilità a “problema” da risolvere. È anche nell’iperprotezione, nella medicalizzazione sistematica dell’identità, nel dire: “Non ti preoccupare, sei speciale.” Dire a una bambina in carrozzina che “può fare tutto” può sembrare incoraggiante, ma spesso la mette nella condizione di doversi adattare a un modello di performance normato, che non considera i limiti strutturali, ma soprattutto i suoi desideri reali e personali.

Il “coraggio” non è un trofeo da esibire

“Ha tanto coraggio, con tutto quello che ha… ed è anche riuscita!”
Quante volte lo abbiamo sentito dire? Anche questa è una frase intrisa di abilismo. In apparenza è un complimento, ma in realtà rivela l’idea che la disabilità sia un fardello eroico da portare, una zavorra da cui emanciparsi per meritare il nostro applauso (di persone “normali”, buone e giuste perché con corpo standard). Si celebra il “coraggio” della persona disabile solo quando si conforma a un modello di successo, ignorando tutte le barriere che la società ha messo sul suo percorso.

Questa narrazione eroica, paternalista, è dannosa perché sposta il focus dal sistema all’individuo: se una persona “ce la fa”, allora implicitamente tutte le altre che non ci riescono sono in difetto. Ecco che la disabilità diventa una sfida personale, non un tema politico e sociale. Si celebra chi “si adatta”, mentre si zittisce chi reclama diritti, accessibilità e dignità.

La disabilità non è una tragedia

È urgente decolonizzare lo sguardo con cui leggiamo la disabilità. Non è una condizione tragica, né una missione spirituale. Non è nemmeno un superpotere. È un modo di essere al mondo, differente dalla maggioranza, ma non per questo meno valido. Il problema nasce quando si considera la persona disabile come “altro da sé”, come se l’esperienza del corpo e della mente possa essere divisa in categorie: valide e non valide, funzionali e disfunzionali, integre e danneggiate.

Chi cresce con una disabilità (fisica, sensoriale, intellettiva o neurodivergente) non ha bisogno di essere compatita, compatito o resa, reso invisibile. Ha bisogno di essere ascoltata, rappresentato, rispettata. Ha bisogno di accessibilità, non di pietà. Ha bisogno di ascolto reale, non di “inclusione” performativa. E soprattutto ha bisogno di persone adulte che non si voltino dall’altra parte o che, nel tentativo di essere “comprensive”, finiscono per rafforzare lo stigma.

Educare al riconoscimento, non alla normalizzazione

Un’educazione affettiva e sessuale – ad esempio – non può prescindere da una riflessione sulla disabilità. Non solo perché anche le persone disabili hanno una sessualità (elemento ancora oggi scandalosamente rimosso), ma perché le narrazioni dominanti costruiscono i corpi desiderabili e legittimi escludendo sistematicamente quelli disabili. Questo si riflette nei libri di testo, nelle fiabe, nei media, nelle campagne educative. Si riflette nella paura che hanno molte persone adulte di “far domande” o “parlare di certe cose” con una persona disabile, come se il desiderio, l’identità o l’autonomia fossero inaccessibili.

È fondamentale invece proporre nelle scuole e nelle famiglie un immaginario che tenga dentro ogni corpo, ogni esperienza, ogni modo di sentire. Non per “fare contenti tutti”, ma perché solo così si produce davvero cultura. Non si tratta di aggiungere una lezione sulla disabilità. Si tratta di rivedere tutto l’impianto educativo alla luce della complessità dell’esperienza umana.

“Ma io tratto tutti allo stesso modo”

Questa è una delle frasi più abiliste che si possano dire. Trattare tutte e tutti “allo stesso modo” non è equità: è cancellazione delle differenze. Equità significa invece riconoscere le specificità, agire per rimuovere gli ostacoli, modificare l’ambiente e le aspettative affinché ciascuna persona possa esprimersi. E questo vale anche per chi ha bisogni educativi differenti, per chi non comunica in modo standard, per chi ha bisogno di tempi e spazi differenti.

L’equità non è una gentile concessione. È un diritto. E non si realizza con frasi di circostanza o sorrisi imbarazzati, ma con scelte strutturali, linguaggi consapevoli e decontrazione educativa.

L’antidoto all’abilismo? Ascolto, presenza, alleanza

L’abilismo si combatte (anche) a scuola, a casa, nei parchi, sui social. Si combatte ogni volta che smettiamo di credere che la disabilità sia “la sfortuna degli altri”. Ogni volta che ci chiediamo se il nostro linguaggio, la nostra organizzazione degli spazi, la nostra idea di infanzia sia realmente accessibile. Ogni volta che lasciamo spazio, senza paura, al protagonismo di chi ha sempre dovuto adattarsi.

Ogni volta che, invece di dire “poverina”o “poverino”, chiediamo: “Cosa posso fare per decostruire il mio paradigma culturale?”
E poi restiamo, per davvero, ad ascoltare.