Il potere sottile del victim blaming e l’urgenza di cambiare sguardo
“Non fare la vittima”. Quante volte questa frase, apparentemente innocua, è stata una sentenza? Un sigillo di silenzio, una forma raffinata – e per questo ancora più tossica – di invalidazione. Non è solo una frase, il victim blaming, è un’arma. Una formula culturale, sociale, simbolica che ridisegna i confini tra chi ha potere e chi non ce l’ha. Tra chi viene ascoltata e chi viene zittita.
Nel lessico quotidiano, nel linguaggio scolastico, familiare, mediatico, dire a qualcuno o qualcuna “non fare la vittima” equivale a disconoscere il dolore, a negare la possibilità stessa di raccontarsi. Significa costringere chi ha subito un’ingiustizia, un abuso, una violenza, a dubitare della propria esperienza.
Quando il potere è culturale, e non si vede
Il victim blaming – ovvero la colpevolizzazione della vittima – non è un malinteso. È un dispositivo sociale. E funziona. Funziona perché è interiorizzato. È nelle parole delle madri che, per vergogna o per paura, dicono alle figlie di “lasciar perdere”. È nei docenti che suggeriscono “magari sei stata troppo sensibile”. È nei padri che pongono in dubbio la narrazione della propria figlia dopo un abuso subito, perché “non si può distruggere una famiglia per un racconto”.
È il potere della cultura patriarcale che attraversa ogni classe sociale, ogni credo, ogni scuola. È l’espressione più compiuta della gerarchia del sentire: ciò che provi non è valido, se non rientra nei codici previsti. E quei codici sono costruiti storicamente da chi ha detenuto e detiene il potere: maschi, adulti, eterosessuali, spesso appartenenti a classi sociali medio-alte.
Invalidazione come dispositivo: lo smantellamento della soggettività
In questo meccanismo, non è solo la violenza a fare danno. È il modo in cui viene narrata. È l’eco del dubbio che rimbalza nella testa di chi la subisce: “Forse ho esagerato”, “Forse non è stato così grave”, “Forse me la sono cercata”. E queste frasi non sono pensieri privati: sono il riflesso collettivo di una cultura che attribuisce ancora responsabilità a chi subisce.
Chi cresce in ambienti dove si assiste alla violenza – psicologica, economica, fisica – impara presto che non tutte le parole hanno lo stesso peso. C’è chi può parlare e chi no. C’è chi, se denuncia, deve anche dimostrare, giustificare, spiegare. In alcuni casi, come succede troppo spesso nelle famiglie o nei contesti scolastici, l’esperienza della vittima viene addirittura sovrascritta da un’altra versione più “conveniente”, più “familiare”, più “credibile”.
E così la persona ferita – sia essa una bambina, un ragazzo, un’adolescente – si trasforma da soggetto che chiede riconoscimento a oggetto di indagine, a potenziale menzognera, a colpevole implicita.
Il tabù non è la violenza: è la verità
Non è la violenza il vero tabù nella nostra società. È la voce di chi la nomina. È il coraggio di dire che “una cosa terribile mi è successa e nessuno mi ha creduta/o”. È l’atto radicale di rompere un silenzio che per generazioni è stato mantenuto “per il bene della famiglia”, “per non dare uno scandalo”, “perché tanto ormai è passato”.
Ma niente passa se non viene attraversato. E niente si cura se viene messo a tacere.
Questo è vero in ogni contesto: a casa, a scuola, nei tribunali, nei consultori, nelle parrocchie. È un’urgenza educativa, sociale, politica. Chi lavora o vive a contatto con l’infanzia e l’adolescenza deve fare i conti con le proprie categorie interiorizzate. Con quella voce, spesso involontaria, che porta a ridurre il racconto dell’altra o dell’altra a “esagerazione”, a “manipolazione”, a “ricerca di attenzione”.
Il privilegio di non vedere
Chi non ha mai subito una forma di controllo, coercizione o abuso, spesso non riconosce i segni. Non per cattiveria, ma per ignoranza. Per privilegio. E il privilegio – dice Audre Lorde – è cieco. Non vede perché non ha bisogno di vedere. Ma chi educa, chi accompagna nella crescita, non può permettersi questa cecità.
Dire a una persona sopravvissuta “non fare la vittima” non è solo inopportuno: è una forma di ulteriore violenza. È un modo per dire: “Quello che ti è accaduto non ci interessa, non ti crederemo comunque, quindi risparmiaci il disturbo”.
E questo messaggio arriva, forte e chiaro, anche quando viene sussurrato. Anche quando si accompagna a un sorriso di circostanza o a un invito a “guardare avanti”. Ma guardare avanti non si può se prima non si è guardato dentro.
Il danno collaterale dell’indifferenza
Chi si trova accanto a una persona vittima di violenza – una figlia, una compagna, una studentessa, un’amica – ha una responsabilità enorme: riconoscerla. Riconoscere non significa interpretare. Significa credere. Significa offrire uno spazio di ascolto e protezione. Anche quando si ha paura. Anche quando è scomodo. Anche quando si teme di “rovinare l’equilibrio” della famiglia, della scuola, della comunità.
Chi non lo fa, collabora – consapevolmente o no – con il sistema che rende possibile la violenza. La rende invisibile. La rende legittima.
Per questo è fondamentale iniziare a parlare – davvero – di potere. Di chi lo detiene e di chi lo subisce. Di come si muove nei rapporti intimi, familiari, affettivi, educativi. Di quanto sia facile dire “non fare la vittima” e quanto sia difficile, invece, farsi carico di ciò che quella parola rifiutata – “vittima” – porta con sé.
Perché non sei tu a dover cambiare, ma chi ti ha fatto del male.
Questo articolo non sostituisce il supporto di una o di un professionista della salute mentale, ma vuole offrire spunti di riflessione e sensibilizzazione su un tema di grande importanza sociale. Se sospetti che una bambina, un bambino o una personaadolescente siano vittime di violenza, o se tu stessa o tu stesso stai vivendo una situazione di abuso, chiedi aiuto a professionisti, centri antiviolenza o servizi di supporto specializzati. Parlare è il primo passo per spezzare il silenzio e trovare una via d’uscita.