C’è una forma di violenza che non lascia lividi, che non urla e non rompe piatti. Non si vede, spesso non si nomina, ma lacera lentamente: è la violenza economica. Si insinua nella quotidianità, mimetizzata sotto il controllo delle spese, la negazione dell’autonomia, il ricatto del denaro. È subdola e pervasiva, eppure ancora troppo poco riconosciuta come forma di abuso vero e proprio. E invece lo è.
Cos’è la violenza economica?
Si parla di violenza economica quando una persona esercita un controllo coercitivo sull’altra attraverso il denaro o l’accesso alle risorse. Può manifestarsi in molte forme: impedire l’accesso al conto corrente, costringere a giustificare ogni spesa, vietare di lavorare o studiare, obbligare a intestarsi debiti, sottrarre il denaro guadagnato. Non si tratta di “scelte di coppia” né di dinamiche familiari “tradizionali”: è potere, è dominio, è annientamento dell’autonomia.
Nelle relazioni affettive – e in particolare in quelle eterosessuali – la violenza economica si innesta spesso su una struttura patriarcale che attribuisce al maschile la gestione delle finanze, mentre il femminile viene infantilizzato, delegittimato, relegato in uno spazio di dipendenza.
Quando il denaro diventa un’arma
La violenza economica è uno degli strumenti con cui si esercita la violenza domestica e di genere. In molte storie di abuso, è proprio questa forma di controllo a impedire a una persona di trovare alternative. Senza soldi, senza un lavoro, senza accesso ai propri documenti, la fuga diventa impossibile.
Il paradosso? La società raramente la riconosce come tale. Troppo spesso viene liquidata come una questione privata, un problema di coppia, o peggio, come una mancanza di intraprendenza della vittima. Questo accade perché il nostro immaginario culturale è ancora intriso di modelli in cui la dipendenza economica della donna è “normale”, mentre il controllo da parte del compagno viene visto come espressione di responsabilità, non di possesso.
Cultura, educazione e potere
La violenza economica non nasce nel vuoto. È figlia di una cultura che associa la leadership al maschile e la sottomissione al femminile. Una cultura che scoraggia l’indipendenza delle donne, che colpevolizza chi chiede, chi osa, chi vuole di più. Una cultura in cui, ancora oggi, l’educazione finanziaria non è rivolta in modo paritario a tutte e tutti.
Eppure, insegnare l’autonomia economica è prevenzione. È educazione alla libertà. È un atto sociale. Per questo è fondamentale che le scuole, le famiglie e chi lavora con l’infanzia e l’adolescenza inizino a parlare di soldi in modo trasparente, paritario, consapevole.
L’eredità invisibile
Chi ha vissuto in un contesto in cui la violenza economica era presente spesso porta con sé un’eredità pesante: la difficoltà a gestire le proprie finanze, il senso di colpa nel desiderare l’indipendenza, la paura di chiedere o il voler essere iper-indipendenti. Soprattutto per chi è cresciuta (o cresciuto) in famiglie in cui il denaro era uno strumento di potere, di ricatto o di punizione, costruire un rapporto sano con il denaro può essere un cammino lungo e doloroso.
Ma è un cammino possibile. Serve consapevolezza, supporto, ascolto. Serve riconoscere che il valore di una persona non si misura in euro ma nella sua libertà di scegliere, di sbagliare, di costruire.
Parole che spezzano il silenzio
Parlare di violenza economica significa portare alla luce un tassello spesso ignorato della violenza domestica. Significa riconoscere che non si tratta solo di botte o urla, ma anche di controllo sistematico, di negazione dell’autodeterminazione. E significa, soprattutto, dare voce a chi ogni giorno cerca di ricostruire la propria indipendenza contro un sistema che l’ha tradita.
Questo articolo non sostituisce il supporto di una o di un professionista della salute mentale, ma vuole offrire spunti di riflessione e sensibilizzazione su un tema di grande importanza sociale. Se sospetti che una persona sia vittima di violenza economica, o se tu stessa o tu stesso stai vivendo una situazione di abuso, chiedi aiuto a professionisti, centri antiviolenza o servizi di supporto specializzati. Parlare è il primo passo per spezzare il silenzio e trovare una via d’uscita.