Violenza

La cultura della colpevolizzazione: perché le vittime di abusi sono spesso messe sotto accusa?

Nel nostro immaginario collettivo, chi subisce violenza dovrebbe ricevere ascolto, protezione, giustizia. Eppure, troppo spesso accade l’opposto: le vittime vengono messe sotto processo. Non in tribunale, ma nella società. Una cultura pervasiva, sottile e feroce, quella della colpevolizzazione – o victim blaming – che riesce a spostare il peso della responsabilità da chi compie l’abuso a chi lo subisce.

Colpevolizzare è un modo per difendere lo status quo

“Ma perché non hai detto niente prima?”, “Cosa ti aspettavi vestendoti così?”, “Sarà poi vero?”. Queste sono solo alcune delle frasi che, ogni giorno, donne sopravvissute a violenze si sentono dire. E lo stesso accade, seppur con minore frequenza – e non in modo sistemico e strutturale – anche agli uomini. Ma è sulle donne che si concentra la lente più giudicante.

Il sospetto, l’insinuazione, il non detto diventano armi. Non feriscono una volta sola, ma riscrivono l’intera narrazione: da persone ferite a complici del proprio dolore.

In contesti familiari, educativi e sociali dominati da logiche patriarcali, questa dinamica è radicata. Soprattutto se chi subisce è una donna, una ragazza, una bambina. Se è una persona che non si conforma ai modelli imposti. Se parla, disturba. Se resta in silenzio, è colpevole comunque. La cultura del sospetto serve a proteggere chi esercita il potere. Serve a rendere inoffensiva chi denuncia.

Quando dire la verità diventa un atto rivoluzionario

Raccontare pubblicamente una violenza significa esporsi. Significa attraversare di nuovo il dolore, ma soprattutto affrontare lo sguardo delle altre persone. E spesso chi ascolta non è pronto – non è disposto – a sentire davvero. Perché ascoltare davvero significa rimettere in discussione la propria idea di famiglia, di educazione, di relazioni.

Allora, nel tentativo di “capire meglio”, si iniziano gli interrogatori travestiti da conversazioni. “Ma sei sicura?”, “Hai capito bene?”, “Non sarà che…?”. La parola della vittima viene messa in discussione, esaminata, sezionata, come se la violenza fosse un fenomeno oggettivo da spiegare in laboratorio. Ma la violenza è corpo, è pelle, è paura. E la verità è spesso sporca, storta, frastagliata. Come la memoria di chi ha vissuto il trauma.

Infanzia e adolescenza: le vittime più invisibili

Quando le vittime sono bambine o adolescenti, la colpevolizzazione assume forme ancora più subdole. La loro voce è ritenuta “poco affidabile”, i loro racconti “frutto della fantasia”. I segni del trauma – come l’enuresi, i disturbi d’ansia, l’isolamento, la scuola che viene evitata – vengono ignorati o trattati come “capricci”. Ma raramente sono letti come quello che sono: segnali chiari, urla silenziose.

Chi lavora a stretto contatto con l’infanzia – genitrici, genitori, insegnanti, educatrici, educatori – ha un ruolo cruciale. Ma non sempre ha gli strumenti per riconoscere, leggere, intervenire. Serve una formazione specifica e continua, serve un approccio culturale nuovo, che parta dalla consapevolezza che le violenze esistono anche dove non si vedono. Anche nelle famiglie apparentemente perfette.

La responsabilità della scuola e delle famiglie

Non è più tempo per la neutralità. La scuola deve farsi spazio sicuro. Le famiglie devono imparare a riconoscere i segnali. Chi educa ha il dovere di costruire contesti dove la parola della vittima non venga messa in dubbio, ma accolta.

Serve un’educazione affettiva, emotiva, sessuale che parta dai primi anni. Serve parlare di violenza di genere, di violenza domestica, di manipolazione, di consenso, senza tabù né pudore. Serve smettere di delegare tutto alla “sensibilità personale” e riconoscere che la prevenzione è responsabilità collettiva.

Il prezzo del silenzio

Ogni volta che si tace, si minimizza o si dubita, si rinforza il potere di chi esercita la violenza. E si insegna – a chi osserva – che denunciare non serve. Che è meglio sopportare. Che non si verrà credute.

Ma il prezzo del silenzio è altissimo. Si chiama depressione, dispersione scolastica, isolamento e, a volte, suicidio. E colpisce anche chi, magari, non ha subito direttamente la violenza, ma è cresciuta accanto ad essa. È figlia o sorella. È testimone muta di ciò che accade ogni giorno nelle case, nelle scuole, nelle palestre.

Non è coraggio. È sopravvivenza.

Quando una donna trova la forza di raccontare, non è “coraggiosa”. È sopravvissuta. È una persona che ha scelto di non morire dentro. Che ha deciso di rompere il patto del silenzio, pur sapendo che verrà giudicata. Che sarà chiamata a difendersi ancora, ancora e ancora.

E chi la mette in dubbio, spesso, non ha idea del dolore che ci vuole per parlare. Non ha idea del gelo che attraversa il corpo nel momento esatto in cui si dice, per la prima volta: “è successo a me. E nessuno mi ha creduta”.

E allora basta con la retorica. Non chiamiamolo coraggio. Chiamiamolo per quello che è: una lotta per la sopravvivenza. Un atto di vita. Una fioritura dolorosa e necessaria. E sì, anche una rabbia legittima. Perché la rabbia può essere sacra. Può diventare voce collettiva, trasformazione, rinascita.

La prossima volta che dubiti, chiediti: cosa ti spaventa di più, la violenza o chi la denuncia? E poi chiediti perché.