Nel silenzio ovattato delle mura domestiche si consumano drammi profondi, spesso invisibili. I maltrattamenti su bambine, bambini e adolescenti è un fenomeno tanto diffuso quanto minimizzato, normalizzato o addirittura negato. Nonostante i dati allarmanti, la narrazione pubblica tende ancora a considerare la casa come il luogo “naturalmente” più sicuro, mentre l’esperienza concreta di molte e molti racconta tutt’altro.
Ma perché la società — e spesso anche chi è più vicino — tende a minimizzare la violenza familiare?
Una cultura che protegge le persone adulte, non le creature
Il sistema valoriale su cui si fonda la nostra società continua a riprodurre una gerarchia in cui l’adulto, soprattutto se padre, detiene ancora un’autorità indiscussa. La società tende a proteggere la figura genitoriale — soprattutto quella maschile — avvolgendola in un alone di infallibilità. Questo atteggiamento rende difficile credere a chi denuncia, soprattutto se a parlare è chi è più giovane, vulnerabile e ancora privo degli strumenti per dare voce a ciò che ha vissuto.
Molte volte, di fronte alla testimonianza di una figlia o di un figlio, le reazioni familiari e sociali sono improntate alla negazione: “è solo una fase”, “sta esagerando”, “sarà stato un momento di rabbia”, “anche io ho vissuto così e sono cresciuta o cresciuto bene”. Minimizzare diventa una strategia collettiva per evitare di affrontare l’intollerabile: che chi dovrebbe amare e proteggere è invece carnefice.
Quando la violenza è psicologica, economica o simbolica
Non tutte le ferite sono visibili. Non tutti i lividi lasciano un segno sulla pelle. La violenza psicologica, economica o simbolica è più difficile da raccontare, ma non meno distruttiva. È fatta di sguardi, silenzi, insulti sibilati, controllo delle scelte, negazione dell’identità, umiliazioni sistematiche. È il padre che impone la sua visione del mondo a colpi di potere. È la madre che, intrappolata a sua volta in una rete di abusi, non riesce a difendere.
Queste forme di violenza sono spesso invisibili anche agli occhi dei servizi sociali o del sistema scolastico, che troppo spesso non hanno le competenze, il tempo o il coraggio di ascoltare e agire. Eppure, sono proprio queste violenze sottili a creare ragazze e ragazzi spezzati, che faticano a fidarsi, a esprimere desideri, a costruirsi uno spazio nel mondo.
L’infanzia che si adatta per sopravvivere
Un altro motivo per cui la violenza viene spesso minimizzata è che chi la subisce, fin da piccola o piccolo, impara presto a sopravvivere adattandosi. Diventa compiacente, silenziosa, bravo agli occhi degli adulti. I segnali di disagio si trasformano in sintomi — ansia, insonnia, paure, comportamenti regressivi — che raramente vengono riconosciuti come richieste d’aiuto. Più spesso, vengono liquidati come capricci, esagerazioni o semplice immaturità.
L’infanzia abusata spesso non parla. Si comporta. E noi persone adulte siamo ancora troppo poco allenate e allenati a decifrare i linguaggi non verbali del dolore.
Il tabù della famiglia perfetta
Riconoscere la violenza domestica implica mettere in discussione uno dei pilastri sacri della nostra cultura: l’ideale della famiglia. Quella da “Mulino Bianco”, che fa Natale tutti insieme, che si stringe attorno alla tavola, che nasconde sotto il tappeto i traumi per salvare le apparenze.
Chi osa rompere il silenzio viene spesso etichettata o etichettato come ingrata, esagerato, o — peggio ancora — come bugiarda o bugiardo. Così chi ascolta, invece di accogliere, isola. Colpevolizza. Allontana. Nel frattempo, chi esercita il maltrattamento viene protetto da una fitta rete di complicità fatta di sguardi distolti, parole non dette e giustificazioni taciute.
Scuole, servizi, persone adulte: chi si prende la responsabilità?
Le scuole, i servizi sociali, le comunità educanti hanno un ruolo cruciale. Ma spesso non sono formati per intercettare i segnali. O non hanno le risorse per intervenire. Oppure, peggio ancora, temono di mettere mano dentro dinamiche che scardinerebbero equilibri delicati.
E allora ci si volta dall’altra parte. Si aspetta. Si rimanda. Fino a quando le conseguenze esplodono in adolescenza o in età adulta, sotto forma di relazioni tossiche, disturbi psicosomatici, depressione, autodistruzione. E solo allora — forse — si inizia a collegare i puntini.
Rompere l’alleanza con il silenzio
Parlare di violenza domestica contro chi le minori e i minori significa scegliere di vedere, di ascoltare e di schierarsi. Non è una questione privata. È una questione culturale, etica, politica. È un atto di giustizia verso le persone che, ogni giorno, crescono nel terrore e nel disamore.
Non basta indignarsi per i casi eclatanti che fanno notizia. Serve costruire una cultura che dia valore alla parola delle bambine e dei bambini, che formi chi educa, che protegga chi denuncia, che spezzi il ciclo dell’impunità. Servono luoghi sicuri, spazi di ascolto, progetti di formazione emotiva. Serve un cambiamento sistemico, non un cerotto messo sopra l’ennesimo caso.
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