Violenza

La famiglia che non protegge: uno sguardo culturale sulla violenza assistita

Parlare di violenza assistita significa guardare in faccia una realtà che troppo spesso resta ai margini del discorso pubblico. È l’esperienza vissuta da bambine e bambini, ragazze e ragazzi che crescono dentro ambienti familiari attraversati da violenza – fisica, psicologica, economica, verbale – non sempre subita direttamente, ma sempre subita nell’anima.

Eppure, questo tipo di violenza resta invisibile. Invisibile perché non lascia lividi evidenti, perché si consuma nelle stanze chiuse delle abitazioni, perché si protegge dietro le retoriche della “sacralità della famiglia”. Ecco il punto: la violenza assistita è una ferita culturale, prima ancora che psicologica. È un indicatore drammatico di cosa intendiamo, ancora oggi, per “casa”, per “genitorialità”, per “educazione”.

Quando la casa smette di essere un rifugio

La famiglia dovrebbe essere il primo luogo sicuro, la prima struttura simbolica in grado di contenere il mondo emotivo in formazione. Quando questo spazio viene abitato dalla violenza, diventa il primo tradimento.

La violenza domestica – anche se non rivolta direttamente verso le figlie e i figli – li attraversa, li forma, li segna. La loro crescita non avviene in un clima di amore, ma nella paura costante del prossimo scoppio, del prossimo silenzio, della prossima umiliazione. Lo sguardo dell’infanzia diventa spettatore forzato di uno spettacolo doloroso. E quel dolore si sedimenta.

Secondo i dati raccolti dal servizio antiviolenza nazionale, il 90%  delle violenze avviene dentro le mura domestiche. E il 60% sono madri a subirla. Questo significa che decine di migliaia di minorenni, ogni giorno, vivono in ambienti in cui la violenza è una presenza costante. Eppure, nel dibattito pubblico e nei dispositivi educativi, questa realtà resta marginale. Spesso ignorata, minimizzata o peggio: normalizzata.

La cultura che protegge il carnefice

Perché succede? Perché una parte della cultura, ancora oggi, si costruisce sull’idea che i legami familiari vadano preservati “a ogni costo”. Che il padre-padrone sia una figura scomoda, sì, ma tutto sommato tollerabile, “perché è sempre il padre”. Che le madri “devono” proteggere a ogni costo, anche quando non hanno strumenti, possibilità, forza.

Questa cultura, intrisa di patriarcato, punisce chi rompe il silenzio. Penalizza le madri che denunciano, isola le figlie e i figli che parlano, colpevolizza chi non perdona. È una cultura che sopravvive anche nei tribunali, nelle scuole, nei media, dove spesso la narrazione è ancora centrata sul concetto astratto di “famiglia” e non sulle reali condizioni di vita di chi la abita.

Nel frattempo, le persone più giovani interiorizzano dinamiche di potere distorte, modelli relazionali basati sul controllo, l’annientamento emotivo, la paura. E anche se sopravvivono, lo fanno portando dentro una memoria emotiva pesante, che rischia di riattivarsi nella vita adulta, nei legami affettivi, nel rapporto con sé stessə.

Educazione e responsabilità: il ruolo della scuola e della società

Scuole e media non possono più restare spettatori passivi. È necessario che insegnanti, educatrici ed educatori siano formati per riconoscere i segnali di disagio, che sappiano distinguere tra “bambina difficile” e bambina in pericolo. È necessario che chi si occupa di informazione e comunicazione sia formata o formato su queste tematiche.

La violenza assistita non si manifesta con un’etichetta, ma parla attraverso il corpo, il comportamento, la relazione. Chi è a contatto con l’infanzia e l’adolescenza ha il dovere culturale di non ignorare. Di non cadere nella trappola dell’indifferenza travestita da neutralità.

Anche il linguaggio è importante. Parlare di “liti in casa” quando si tratta di abusi non è solo scorretto: è complice. La società intera deve iniziare a chiamare le cose con il loro nome, senza paura di disturbare. Perché ciò che davvero disturba non è la verità, ma l’omertà.

La cura inizia dal riconoscimento

Non tutte le forme di protezione passano dai servizi sociali. A volte basta una parola giusta al momento giusto. Una docente che nota. Una vicina che ascolta. Un familiare che, finalmente, trova il coraggio di scegliere la sicurezza al posto dell’apparenza.

Per questo serve una rivoluzione culturale. Una che parta dalle parole, dai libri, dai media, dai contenuti online. Che racconti la complessità, la fragilità e la forza dei percorsi di chi vive in contesti di violenza. Non per pietà, ma per trasformare lo sguardo collettivo.

Le bambine e i bambini sanno tutto. E noi?

Sanno quando una voce non è sicura. Sanno quando il silenzio è pieno di terrore. Sanno quando qualcosa non va, anche se non sanno darle un nome. E se lo sanno loro, allora lo sappiamo anche noi. La differenza è che noi possiamo scegliere: possiamo decidere di vedere. Di ascoltare. Di parlare. Di agire.

Perché se una famiglia non protegge, deve farlo la collettività.