C’è una frase che molte donne e molti uomini si portano dentro per tutta la vita. La sentono dire da piccole e piccoli, la ripetono a se stessi nei momenti più impensabili, la ascoltano pronunciare da zie, da nonne e familiari: “Tuo padre ti vuole bene, a modo suo.” È la frase che annulla ogni schiaffo, ogni silenzio gelido, ogni sguardo che punisce. Una carezza letale che trasforma la violenza familiare in forma d’amore. Un mantra tossico che nasconde, sotto il tappeto della famiglia, l’enorme polvere del patriarcato.
Il patriarcato che abita le case
La violenza domestica non è un fenomeno privato. È un fatto culturale, sociale e politico. E, soprattutto, è strutturale. Nasce e cresce dentro un sistema patriarcale che per secoli ha garantito agli uomini – padri, mariti, fratelli – un potere legittimo sulle donne e sulle figlie. Quando si parla di “padre-padrone” non si usa una metafora, ma si racconta una genealogia storica fatta di controllo, dominio e silenzio. Il patriarcato non si manifesta solo nei tribunali, nei luoghi di lavoro o nelle leggi: si manifesta soprattutto nelle cucine, nei salotti, nelle camere da letto. Nella gestione quotidiana del proprio corpo, delle emozioni, delle scelte.
Ci hanno insegnato che la famiglia è un luogo sicuro. Ma per molte persone, la famiglia è stata – o è – il primo campo di battaglia. La violenza familiare non è solo fisica: è psicologica, economica, simbolica. È quella che ti toglie la parola, ti fa sentire sbagliata, ti convince che è colpa tua. È quella che costruisce, mattone dopo mattone, la casa dell’autocolpevolizzazione e dell’adattamento forzato.
La normalizzazione della violenza: “Così fan tutti”
“Tuo padre è fatto così.”
“È il suo modo di dimostrarti affetto.”
“Non l’ha fatto apposta.”
Queste frasi, così familiari e apparentemente inoffensive, sono in realtà i mattoni con cui si costruisce la normalizzazione della violenza. Un sistema in cui le bambine e i bambini imparano presto a giustificare l’aggressività di chi dovrebbe proteggerli. In cui si cresce imparando che essere amati vuol dire anche avere paura.
Questa narrazione disinnesca qualsiasi tentativo di cambiamento. Perché se “così fan tutti”, allora non c’è niente da cambiare. Ma la verità è che la violenza non è mai un tratto caratteriale. È una scelta, un’abitudine appresa, una strategia di potere. E come tutte le costruzioni culturali, può – e deve – essere decostruita.
La disuguaglianza di genere dentro le mura di casa
Nella maggior parte dei contesti familiari in cui si verifica violenza, esiste un’asimmetria di genere netta e visibile: le figlie sono controllate, i figli sono giustificati. Le donne devono mediare, tacere, accudire. Gli uomini possono esplodere, punire, silenziare. La violenza patriarcale non è cieca: ha bersagli ben precisi. E i suoi effetti più profondi non sono solo visibili nei lividi, ma nella formazione dell’identità, nella percezione del valore personale, nella difficoltà di costruire relazioni sane.
In molte famiglie, il maschile viene premiato non per merito, ma per appartenenza. Ed è proprio questa gerarchia invisibile che educa intere generazioni a credere che la forza – anche quando è abuso – sia un diritto.
La doppia ferita: essere tradite da chi dovrebbe proteggere
Quando la violenza arriva da un padre, il trauma è doppio. Non solo perché si riceve un danno, ma perché quel danno viene inflitto da chi dovrebbe garantire protezione. Il senso di tradimento, l’isolamento emotivo, l’invisibilità della propria sofferenza diventano cicatrici difficili da rimarginare. Soprattutto se, intorno, tutto tace. Se la famiglia minimizza, se la scuola non vede (o preferisce non vedere), se la società colpevolizza chi denuncia.
Il victim blaming – colpevolizzare chi subisce violenza – è una pratica ancora profondamente radicata. Si mette in dubbio la parola della vittima. Si chiede: “Sicura che sia andata così?”, “Ma hai provato a parlarne?”, “Magari è solo stressato”. Così, il padre violento resta intoccabile, e chi ha subito si porta addosso anche il peso del sospetto.
Un’eredità difficile da spezzare
Chi è cresciuta o cresciuto in contesti familiari violenti spesso si ritrova, da adulta o adulto, a replicare inconsapevolmente dinamiche disfunzionali. Relazioni tossiche, paura dell’intimità, difficoltà a fidarsi, rabbia cronica: sono tutte forme con cui il passato continua a vivere nel presente. Ma c’è anche chi, da quella violenza, ha tratto la forza per spezzare la catena. Chi ha scelto di raccontare, di denunciare, di costruire un’alternativa. Chi, pur venendo da una casa dominata dal patriarcato, ha deciso di costruirne una dove il rispetto, la cura e l’empatia siano la nuova via e non l’eccezione.
Il patriarcato è un affare di tutte e tutti
Parlare di violenza familiare non significa solo occuparsi di “casi isolati”. Significa interrogare il nostro modello culturale, l’educazione che diamo, il modo in cui costruiamo le relazioni. Significa smettere di dire “Tuo padre ti vuole bene, a modo suo” e iniziare a dire: “Nessun modo che fa male è amore”.
Cambiare richiede coraggio, ma anche visione. Una società che si prende cura dell’infanzia e dell’adolescenza è una società che ha il dovere di smascherare ogni forma di abuso, anche – e soprattutto – quelle che si nascondono sotto l’abito rassicurante della famiglia quando l’amore (tossico) è solo un alibi per esercitare violenza.
Questo articolo non sostituisce il supporto di una o di un professionista della salute mentale, ma vuole offrire spunti di riflessione e sensibilizzazione su un tema di grande importanza sociale. Se sospetti che una bambina, un bambino o una persona adolescente siano vittime di violenza domestica, o se tu stessa o tu stesso stai vivendo una situazione di abuso, chiedi aiuto a professionisti, centri antiviolenza o servizi di supporto specializzati. Parlare è il primo passo per spezzare il silenzio e trovare una via d’uscita.