In un’epoca in cui la parola “violenza” evoca immagini forti, gesti espliciti, ferite visibili, c’è una forma di abuso che continua a strisciare nell’ombra, celandosi tra le pieghe della quotidianità: la violenza psicologica all’interno delle relazioni familiari. Non urla, non lividi, ma parole sottili, sguardi di disapprovazione, colpevolizzazioni costanti, silenzi che tagliano come lame. È la violenza invisibile, quella che si consuma tra le mura domestiche, spesso all’interno della relazione più delicata e fondante: quella tra figlie, figli e genitrici e genitori.
La violenza senza rumore
Nel nostro immaginario collettivo, la violenza domestica e la violenza di genere sono ancora troppo spesso associate esclusivamente a manifestazioni fisiche. Eppure, esistono dinamiche relazionali capaci di distruggere l’identità e l’autostima, pur senza mai lasciare segni visibili sul corpo. La manipolazione emotiva, il controllo, la svalutazione continua sono strumenti di potere insidiosi, esercitati a volte con inconsapevolezza, altre con fredda determinazione.
Nel contesto familiare, queste dinamiche diventano ancora più complesse. Perché chi esercita il potere psicologico è anche, spesso, chi dovrebbe garantire protezione, nutrimento emotivo, accoglienza incondizionata. Quando l’amore si trasforma in un dispositivo di controllo, quando la dipendenza affettiva è coltivata, si crea un ambiente in cui crescere diventa una lotta silenziosa.
La cultura della sottomissione emotiva
Non possiamo comprendere appieno la violenza psicologica senza considerare il contesto culturale che la permette e la giustifica. La nostra società è ancora permeata da un retaggio patriarcale che normalizza il controllo genitoriale come espressione di autorità e amore (due parole che non potrebbero coesistere nella stessa frase). Frasi come “lo faccio per il tuo bene”, “devi imparare a obbedire”, “non sai cosa è giusto per te” si insinuano nelle relazioni educative come mantra di una pedagogia coercitiva travestita da premura.
Il problema è che, soprattutto nei primi anni di vita, le bambine e i bambini non hanno strumenti per distinguere tra amore e potere. Crescono pensando che sia normale sentirsi sbagliate, sbagliati, inadeguate, inadeguati. Interiorizzano la vergogna come linguaggio dell’affetto. E quando diventano adolescenti, esplodono. O implodono.
Genitorialità e narrazione dominante
Essere genitrici e genitori oggi significa spesso muoversi in un terreno minato tra aspettative sociali, pressioni educative e paure personali. In questo scenario, il controllo si maschera da cura. Eppure, educare non è possedere. Non è modellare un essere umano secondo i propri bisogni irrisolti. È accompagnare, è osservare, è lasciar spazio, mettere in discussione il proprio modello educativo con cui si è state e stati cresciuti.
Purtroppo, la narrazione dominante non aiuta. Da un lato, si esaltano i modelli autoritari come garanti dell’ordine; dall’altro, si colpevolizza ogni cedimento del controllo genitoriale come “disattenzione” o “permissività”. In questo dualismo sterile, la possibilità di costruire relazioni autentiche e rispettose viene soffocata.
Il silenzio come complice
C’è una forma di complicità collettiva che va smascherata: il silenzio. Le forme di manipolazione emotiva in ambito familiare sono raramente riconosciute. Perché è scomodo pensare che un padre, una madre, una nonna, un fratello possano essere responsabili di abusi psicologici. Perché l’idea della “famiglia” come luogo sacro e inviolabile è ancora profondamente radicata. E così, chi denuncia viene spesso zittita, zittito, accusata/o di ingratitudine, instabilità, esagerazione.
Ma è proprio nel silenzio che la violenza si nutre. Quando una figlia viene costretta a scegliere tra le proprie emozioni e l’approvazione familiare. Quando un figlio si sente obbligato a reprimere il proprio orientamento sessuale per non deludere il padre. Quando una persona adulta rivive vive la notte con ansia e attacchi di panico, senza poterne parlare. Questa è violenza. Una violenza subdola, sistemica, culturale.
Rompere il patto del sangue
Parlare di questi temi significa anche avere il coraggio di decostruire il mito del “sangue non tradisce”. La verità è che spesso il sangue tradisce eccome. Tradisce quando non ascolta. Tradisce quando non protegge. Tradisce quando sceglie il quieto vivere a scapito della verità. Rompere il legame con chi ha fatto del potere un’arma affettiva può essere un atto di sopravvivenza. E non è mai un fallimento. È un gesto radicale di cura verso sé stesse e sé stessi.
Chi ha vissuto in contesti coercitivi lo sa bene: si impara a sopravvivere controllando tutto, monitorando gli umori altrui, anticipando le esplosioni, diventando piccole donne e piccoli uomini troppo in fretta. Si sviluppano strategie di adattamento che, col tempo, diventano gabbie. E liberarsene richiede forza, ma soprattutto tempo, ascolto, supporto.
Non si cresce sotto ricatto
Non si cresce bene dove si è costrette e costretti a scegliere tra essere amate/amati e essere sé stesse/stessi. Non si cresce sotto il peso del dover “aggiustare” l’umore della madre, del dover “tenere calmo” il padre, del doversi adeguare per evitare il conflitto. Queste sono prigioni emotive, non educazione. E continuare a chiamarle “problemi familiari” significa perpetuare una cultura che protegge l’abuso invece che chi lo subisce.
Perché l’amore, quello vero, non fa mai paura.
Questo articolo non sostituisce il supporto di una o di un professionista della salute mentale, ma vuole offrire spunti di riflessione e sensibilizzazione su un tema di grande importanza sociale. Se sospetti che una bambina, un bambino o una persona adolescente siano vittime di violenza domestica, o se tu stessa o tu stesso stai vivendo una situazione di abuso, chiedi aiuto a professionisti, centri antiviolenza o servizi di supporto specializzati. Parlare è il primo passo per spezzare il silenzio e trovare una via d’uscita.