In molte case la violenza non si grida, non lascia lividi sulla pelle, non chiama l’ambulanza. Si siede a tavola con tutte e tutti, sorride agli ospiti, si nasconde dietro gesti di “cura” e parole travestite da attenzione. Si chiama violenza emotiva ed è, troppo spesso, invisibile. Invisibile perché quotidiana, familiare, culturalmente giustificata, pedagogicamente tramandata.
La violenza psicologica in famiglia non è soltanto l’umiliazione esplicita, l’insulto, la manipolazione evidente. È anche – e soprattutto – quella che si infiltra nelle pieghe dei silenzi forzati, degli sguardi che puniscono, delle regole che annientano l’identità. È il “per il tuo bene”, l’“educazione severa”, l’autorità senza empatia. È quella forma di potere che non si discute, che si incarna in una madre, in un padre, in un modello familiare patriarcale, spesso sorretto da strutture religiose o morali che lo rendono intoccabile.
Ciò che sembra amore è, in realtà, dominio
Nella nostra cultura, l’educazione è stata per secoli sinonimo di sottomissione. la bambina e il bambino dovevano “ubbidire”, “stare al loro posto”, “imparare a tacere”. In questo paradigma, la persona adulta – genitrice, genitore, insegnante, figura di riferimento – è colei o colui che detiene il potere. E ogni atto di espressione autonoma da parte della persona più giovane può venire letto come sfida, come mancanza di rispetto.
In molte famiglie, ancora oggi, esiste una forma di gerarchia affettiva che si traduce in controllo: controllo delle emozioni, del corpo, delle relazioni. Le figlie e i figli che non rientrano nel modello prestabilito – per inclinazioni, sensibilità, orientamento sessuale, visione del mondo – diventano bersaglio di un “amore” condizionato: ti voglio bene solo se sei come ti voglio.
L’amore familiare, in questi casi, non nutre. Costringe.
Il mito della famiglia “normale”
L’idea che la famiglia sia un luogo sempre e comunque sicuro è uno degli inganni più radicati nel nostro immaginario collettivo. Ma la verità è che, per molte persone, la violenza domestica non è un’eccezione. È la norma.
E non si tratta sempre di violenza fisica. Anzi. Le parole possono diventare fruste. Il silenzio può isolare come un muro. Il giudizio può ridurre in cenere l’autostima. E quando questo accade nell’infanzia e nell’adolescenza, si radica nella mente e nel corpo con una forza devastante. La bambina o il bambino imparano presto a credere che il dolore sia normale. Che essere ignorate, ignorati, manipolati, spaventati sia una condizione accettabile.
E così, crescendo, si sviluppa una narrazione interna pericolosa: “Non è successo niente di grave.” “I miei genitori hanno fatto del loro meglio.” “La colpa era mia.” La violenza emotiva è così efficace perché si autoalimenta nel silenzio. E perché, essendo priva di segni evidenti, spesso non viene riconosciuta neppure dalle vittime.
La cultura che legittima
Non è un problema solo familiare. È sociale, culturale, sistemico. Viviamo in una società che giustifica la durezza come virtù educativa, che considera la fragilità un difetto da correggere. Una società in cui l’autoritarismo si maschera da autorevolezza, e in cui il patriarcato è ancora radicato nella quotidianità domestica.
È qui che la violenza si fa struttura: nei proverbi “I panni sporchi si lavano in famiglia”, nei dogmi “Sopporta, è tuo padre”, nelle scuole che non insegnano l’educazione emotiva, nei media che riducono tutto a casi isolati. L’invisibilità della violenza emotiva è figlia diretta di questa cultura del silenzio e della colpa.
Eppure, è proprio su questo piano che può nascere una rivoluzione.
Interrompere il ciclo
Parlare, nominare, riconoscere. Sono questi i primi atti di disobbedienza necessari per interrompere il ciclo. Chi cresce in contesti violenti rischia di riprodurre ciò che ha vissuto, interiorizzando che il controllo, la punizione, il silenzio siano modi legittimi di stare in relazione.
È una strada faticosa, perché significa guardare in faccia una verità scomoda: non tutte le famiglie proteggono. Non tutti gli affetti curano. E chi ha subito violenza – anche se solo verbale, anche se solo emotiva – ha il diritto di chiamarla con il suo nome.
È necessario costruire nuovi alfabeti affettivi, creare spazi sicuri in cui le persone possano raccontarsi, essere credute, essere ascoltate. Serve educazione emotiva, serve decostruzione dei modelli di genere, serve alleanza tra generazioni. Perché la violenza non si trasmette solo con i gesti, ma con le idee. E cambiare le idee è il primo passo per generare un nuovo modo di amare.
Questo articolo non sostituisce il supporto di una o di un professionista della salute mentale, ma vuole offrire spunti di riflessione e sensibilizzazione su un tema di grande importanza sociale. Se sospetti che una bambina, un bambino o una persona adolescente siano vittime di violenza domestica o se tu stessa o tu stesso stai vivendo una situazione di abuso, chiedi aiuto a professionisti, centri antiviolenza o servizi di supporto specializzati. Parlare è il primo passo per spezzare il silenzio e trovare una via d’uscita.