Paleopatologia Bambini Lettura

La paleopatologia: una scienza tra passato, presente e futuro

Nel campo degli studi e della ricerca c’è ancora la vecchia abitudine di distinguere le discipline ‘umanistiche’ da quelle ‘scientifiche’, cercando quasi sempre di cimentarsi nell’inutile dissertazione su quale sia la più importante.

Paleopatologia Bambini Lettura

Al giorno d’oggi non è più possibile ragionare con categorie così indipendenti e non comunicanti; vi è, ad esempio, un settore che incarna al meglio la sinergia e la compenetrazione tra questi due mondi: la paleopatologia. Si tratta infatti della scienza che studia le malattie e la condizione di salute (e quindi di vita) delle popolazioni del passato attraverso l’analisi delle ossa e delle mummie. La storia, l’archeologia, l’antropologia, la medicina e l’anatomia patologica sono le discipline che principalmente compongono il puzzle della paleopatologia che ha scopi di tipo storico, ovvero quello di compilare la ‘cartella clinica’ di personaggi del passato (da Carlo Magno a Napoleone), e in ambito scientifico, che è quello di capire l’origine e l’evoluzione delle malattie per prevedere il loro sviluppo futuro.

I reperti studiati nei nostri laboratori di Pisa sono scheletri o mummie che appartengono a diversi periodi storici (dall’età etrusca al 1800, con prevalenza per il periodo medioevale) scavati in vari siti archeologici italiani oppure identificati in ricognizioni effettuate in chiese o cripte a fine di studio, ma anche di conservazione e restauro. I reperti vengono usualmente sottoposti ad un attento studio antropologico in cui si identifica l’età, il sesso, la statura ed eventuali traumi o malattie sofferte dal soggetto, seguito poi da indagini più ‘sofisticate’ come la TAC, lo studio della dieta tramite gli isotopi, prelievi istologici e addirittura, in alcuni casi, l’analisi del DNA. Queste valutazioni sono poi integrate grazie all’apporto degli storici che, con lo studio delle fonti antiche e degli archivi, forniscono informazioni necessarie per arrivare ad avere il quadro completo su come un personaggio del passato o una determinata popolazione antica vivesse, lavorasse o si ammalasse.

Una finestra sull’infanzia

Tra gli argomenti sotto la lente dei paleopatologi c’è, ovviamente, la condizione di salute e di vita dei bambini e di come l’infanzia venisse considerata nelle varie culture attraverso il tempo. Affrontare tale argomento significa inevitabilmente fare i conti con episodi di violenze, privazioni ed aspre sofferenze perché fino a non molti decenni fa la mortalità perinatale ed infantile era altissima; tuttavia questo lato ‘struggente’ viene ampiamente compensato da inaspettati gesti affettuosi, premure ed attenzioni che vengono, a torto, considerate solo peculiari della società moderna.
In questa rubrica, dunque, proverò a raccontarvi, mediante gli studi paleopatologici e i dati storico-archeologici, l’infanzia nel passato attraverso un viaggio dall’età classica a quella dei Lumi, cercando di fare luce sui lati più oscuri e mostrando i lati sorprendenti e in larga parte sconosciuti.

Dott. Raffaele Gaeta

Medico anatomo patologo, Divisione di Paleopatologia, Università di Pisa

 

“La parola è il prodotto di una cultura”

“Le parole che usiamo sono importanti. Dicono molto di più del loro significato esplicito, rivelano il modo di pensare.”

Razzismo Culturale

 

È così che Marco Aime scrive in una lettera aperta a un bambino rom nel libro -“La macchia della razza”- edito da elèuthera, soffermandosi sul valore profondo della parola.
In un momento in cui tutto sembra lecito in nome della “libertà di pensiero”, con una eleganza disarmante, Aime ci aiuta a percorrere il cammino della discriminazione quotidiana, della violenza verbale, della paura dell’Altro, il diverso da noi (noi chi?).

Antropologo di fama internazionale, insieme a Marc Augé (premessa) e Guido Barbujani (postfazione), Aime ci fa riflettere sulla dicotomia che viviamo dai tempi del colonialismo (questo sconosciuto), oggetto di studio dell’antropologia culturale: l’incontro-scontro tra le culture, quella dominante e quella subalterna.
Ma se il confronto con l’Altro è lecito quando è mosso da uno spirito di conoscenza, rispetto e crescita reciproca, non lo è quando il pensiero è viziato da pregiudizio, ostilità, odio.
E quando la possibilità di esprimersi incontra l’odio, ecco che “semplifichiamo la vita degli altri per rendere più semplice la nostra”.

Succede quello che gli antropologi definirebbero “essenzialismo”, cioè ridurre una cultura a essenza, chiaramente in termini negativi. Ed è una operazione pericolosa e sicuramente vantaggiosa per chi ne fa uno strumento di potere, perché diventa difficile, poi, restituire tutta quella complessità e unicità, ricca di sfumature proprie di un individuo, invece molto spesso facilmente stigmatizzata.

Ma per ogni comportamento esplicitamente violento e discriminatorio, riconoscibile anche ad un occhio poco allenato, ce ne sono decine, centinaia di altri meno visibili ma altrettanto pericolosi.
“Il razzista lo vedi, lo riconosci, lo senti parlare. Puoi combatterlo. Gli altri no. […] quelli che vedono, sanno e tacciono. Per questo fanno più paura.”

Sdrammatizzare la discriminazione  rende lecita la violenza e la normalizza.

Con il debole alibi della difesa delle origini (quali origini? Le nostre? Quelle nomadi?) e dell’identità da proteggere (è davvero possibile delimitare un’identità?) ci trinceriamo nelle nostre case, in cerca di distanza e separazione, ergendo mura insormontabili con i mattoni delle nostre convinzioni e dei nostri pregiudizi.

“Siamo diventati razzisti senza nemmeno più bisogno della razza. Siamo dei fondamentalisti culturali, per i quali c’è un solo modo di vivere e pensare. Tutto il resto è da cacciare. Parliamo di scontro culturale ma in realtà siamo noi ad alimentare la cultura dello scontro.”
Un testo commovente che ci pone di fronte alla responsabilità di conoscere la storia, all’uso cosciente delle parole e alla consapevolezza (spesso assente) del nostro ruolo sociale.

 

Maturità biologica ed emotiva

Nel senso comune si associa la maturità di un individuo alla sua età biologica.

Ciò significa, ragionevolmente parlando, che una persona adulta è potenzialmente più matura e in grado di fare scelte adeguate di una persona giovane.

Tipi di maturità

E allora come mai alcune persone biologicamente mature, che hanno condizioni di benessere fisico, un lavoro potenzialmente soddisfacente e una stabilità economica, le sentiamo  affaticate, frustrate e stanche?

Quello che spesso ignoriamo è l’esistenza di un altro tipo di maturità, quella emotiva, che è fuori dalle dinamiche puramente biologiche e sociali, per nulla in relazione col tempo e col denaro. Anzi, nelle dinamiche coinvolte dalla maturità emotiva, il tempo gioca un ruolo negativo perché più trascorre in assenza di una educazione in questi termini e più il senso di fatica è difficile da sostenere. 

Dunque esiste un equilibrio interno al quale non si dà ancora la giusta dignità, un po’ per retaggio culturale e un po’ per paura.

Ma è proprio quel mondo interno e, soggettivo, che se imparato a conoscere, ci permette di sentirci più forti e sereni.

“L’universo delle emozioni”

Imparare a scoprire cosa sentiamo e riuscire ad accogliere le emozioni che viviamo, può dispiegare nuove e stimolanti possibilità alle nostre intelligenze, può aiutarci a costruire una salda autostima, a coltivare l’empatia e la gratitudine, a conoscere noi stessi nei nostri punti di forza e, soprattutto, ad accettare i nostri limiti.

Può aprire la possibilità di fare scelte in armonia con ciò che siamo e circondarci di persone che contribuiscono al nostro benessere e alla nostra crescita.

Raggiungere una maturità emotiva permette di avere sempre un buon livello di equilibrio interno, a prescindere dalle condizioni esterne che, invece, sono fuori dal nostro controllo e che a volte possono avere anche degli scenari drammatici: una malattia, una perdita, un trauma in generale.

La nostra è una società che ancora non prevede dei piani sistematici per questo tipo di educazione (come avviene, invece, in molti altri paesi).

Sentire l’esigenza di affrontare questo aspetto fa parte di un lavoro personale che riguarda l’amore e la responsabilità che abbiamo verso noi stessi e verso gli altri.