Mi trovo di fronte (via Skype) alla Dott.ssa Cioni – psicologa, psicoterapeuta sistemico relazionale – per parlare dell’importanza dell’educazione emotiva e per dialogare su un tema, come quello della malattia, che suscita ancora molti dubbi su come debba essere affrontato quando in una famiglia ci sono dei bambini o delle bambine.
Lo faremo presentando “Leo”, il libro per cui ha collaborato intensamente.
“Leo” nasce, come gran parte dell’idea editoriale di Chiara Editrice, con l’esigenza di proporre tematiche come la malattia, il lutto, la separazione dei genitori, l’orientamento, l’identità sessuale, la diversità linguistica, culturale e molto altro. Tutti temi che fanno parte della nostra realtà ma, forse, non ancora di quella che usiamo chiamare la nostra “normalità”.
Ma cos’è la normalità se non qualcosa che siamo abituate/i a vedere, qualcosa che siamo riuscite/i a far entrare dentro di noi e con cui, bene o male, conviviamo.
Dott.ssa Cioni, qual è il rischio psicologico di creare o alimentare un tabù?
Alimentare i tabù significa alimentare i pregiudizi, la diffidenza e questo i bambini lo imparano in famiglia. Pensiamo all’infanzia e all’importanza dell’educazione dei genitori verso “l’altro”, “il diverso”, “lo straniero” in generale. Negli ultimi anni i genitori si lamentano degli atti di bullismo. Ma la maggior parte dei fattori va ricercata proprio in casa.
Dovremmo rivedere il sistema dei valori della famiglia e quando parlo di famiglia non intendo solo quella tradizionale ma ciò che essa rappresenta. Dunque non solo uomo-donna ma tutte le figure di attaccamento e di accudimento dei bambini e delle bambine.
In generale, ignorare qualcosa impedisce di conoscerla mentre crescono gli stereotipi che creano distanza e diffidenza. Il risultato non può che essere la paura.
Ma andiamo al libro.
Leo è un bambino come tanti. Figlio più piccolo di una una famiglia – in questo caso – composta da madre, padre, sorella e fratello. Tra lui e il resto del nucleo familiare esiste una notevole distanza di età.
Il libro si apre con uno spaccato di vita familiare in cui viene introdotta, sin da subito, la formalità dei personaggi nonostante la delicatezza del momento che vivono: la malattia della mamma.
Dott.ssa, come reagiscono di solito le famiglie in una situazione di malattia di un familiare?
Di solito le figure di attaccamento cercano di predisporre una rete di protezione nei confronti dei minori e questo è istintivo, naturale. Fa parte un po’ del concetto di sopravvivenza ed è umanamente comprensibile.
In realtà quello che noi professionisti del settore cerchiamo di spiegare ai genitori è di accompagnare i bambini e le bambine nella sperimentazione della gamma di emozioni che vanno dalla gioia al dolore.
È necessario che sperimentino tutto, che non siano protetti da ciò che è brutto e doloroso perchè l’incontro con il dolore prima o poi avverrà. Per questo è meglio affrontarlo insieme nelle varie tappe evolutive, ricordandoci che le emozioni sono presenti in noi sin dai primi mesi di vita e fanno parte del nostro corredo genetico. È qualcosa di cui non possiamo fare a meno e a cui non possiamo sfuggire.
Se non c’è esposizione al dolore non si sviluppano quegli “anticorpi” necessari per affrontarlo in età adulta.
Nel nostro caso, il piccolo Leo non ci sta a questo evitamento della realtà.
Il suo spirito speculativo mette a dura prova i suoi familiari che, in tutti i modi, cercano di evitare o soffocare il dolore che, indubbiamente, loro stessi provano.
Leo vuole risposte dagli adulti e, a modo suo, si fa sentire: con le domande, con la rabbia, con i mal di pancia, con l’enuresi notturna: quell’atto involontario di bagnare il letto durante la notte (altro tabù da sdoganare che probabilmente merita un capitolo a parte insieme all’importanza di ascoltare i sintomi, propri e altrui).
Leo: una guida emotiva familiare, fa un po’ l’adulto della situazione.
Una delle tappe fondamentali del ciclo vitale del bambino è la conquista della regolazione emotiva che si impara con le figure di attaccamento in modo da vivere le emozioni in maniera adattiva. Questo accade se i genitori si occupano e si preoccupano di dare al loro figlio quella che viene definita educazione emotiva.
Cosa significa educazione emotiva?
È l’abilità di processare informazioni di natura emozionale. Ciò implica la percezione, la comprensione e la gestione delle emozioni.
Nello sviluppo dell’intelligenza emotiva lavoriamo sulla percezione e identificazione delle emozioni, sulla capacità di mettere in relazione cognizione ed emozione, sulla comprensione della natura e gestione efficace delle emozioni.
Un adulto con una buona competenza emotiva è una persona in grado di riconoscere il ruolo che le emozioni hanno giocato nel suo percorso di sviluppo e nella sua storia relazionale. Di conseguenza è una persona in grado di gestire, regolare le proprie emozioni e di riconoscere quelle altrui, favorendo le relazioni positive per la propria crescita.
Nel nostro paese, l’educazione emotiva, sembra essere ancora culturalmente molto lontana, mentre altrove esistono programmi specifici molto utili per sviluppare determinate competenze.
In alcune famiglie accade mentre in altre c’è ancora poca attenzione. Ma quando accade qualcosa di inaspettato, la rete di protezione che viene creata si rivela inconsistente perchè si cerca di controllare qualcosa che non è controllabile. È come mettere i chiodi a una porta di legno quando arriva un uragano. A lungo andare può essere dannoso.
Nel libro si parla di un argomento serio che, in molti casi, dicevamo, spaventa perchè esistono diversi dubbi su come affrontarlo. Però se ne parla anche in modo ironico e alcuni passaggi possono suscitare ilarità o curiosità, come la figura del cardinale…
Questo personaggio, insieme a qualche altro dettaglio, ha una funzione ben precisa: quella di identificare il piccolo protagonista in un ceto sociale abbiente e ben istruito per sottolineare che non esiste alcuna correlazione tra analfabetismo emotivo e livello di istruzione.
Assolutamente. Non è detto che in una famiglia di operai l’educazione emotiva non sussista e in una famiglia di professionisti questa avvenga.
È la qualità dei rapporti che fa di un genitore una figura accudente e non il peso economico che sostiene.
Certo, fa rabbia pensare che chi ha le possibilità o gli strumenti non approfondisca un aspetto che riguarda una responsabilità personale oltre che relazionale.
Noi sistemico relazionali siamo abituati a ragionare non rispetto ai genitori ma rispetto ai nonni: infatti parliamo di trigenerazionalità. Quando un bambino viene in terapia, dobbiamo osservare come funziona l’intero sistema.
Passiamo all’ultimo argomento.
Viviamo in una cultura che assegna i ruoli di genere in modo marcato. Esistono i lavori, i giochi, gli sport, i colori, i desideri, gli amori, le aspettative, le parole, i vestiti, le leggi, gli stipendi e le emozioni per il maschio…e per la femmina.
La scelta del sesso biologico maschile è stata fatta proprio per dare la possibilità ai bambini di potersi identificare in comportamenti che la nostra cultura ha assegnato alle bambine, come per esempio la dimensione del pianto.
Quante volte sentiamo pronunciare “non piangere, sei un maschietto” ,”non piangere sei forte”, “non piangere, ormai sei grande”?
Come se il pianto avesse un sesso, un’età o delle qualità precise per poter essere espresso.
Il pianto ha una sua funzione fondamentale, profonda, eppure viene spesso stroncato aumentando un senso di inadeguatezza e frustrazione.
Correlare il pianto alla fragilità piuttosto che alla forza è un errore da cui sarebbe l’ora di liberarci.
Uno dei compiti evolutivi degli adulti è quello di dare legittimità alle emozioni.
Minimizzarle non aiuta di certo a scioglierle.
Se l’intento dell’adulto è quello di “far smettere di piangere”, sarebbe più sensato accogliere l’emozione affinchè non si trasformi in altro, ad esempio, in rabbia.
Cosa potremmo dire a un/a bambino/a che piange?
Cosa ti fa piangere? Come ti fa sentire questa cosa? E ascoltare, senza giudizio.
Ma per far questo bisognerebbe preparare prima gli adulti…
“Leo” è un libro trasversale, una guida emotiva familiare.
È un libro che ha l’intento di supportare prima di tutto gli adulti ad affrontare le proprie paure.
A prescindere da quello che la vita ci riserva, sviluppare una capacità nel riconoscere e accogliere le emozioni che sentiamo non solo ci permette di diventare adulti consapevoli, con una vita soddisfacente, ma anche di lasciare questo prezioso e indispensabile bagaglio alle vite future.
Empatia nei bambini. Un’abilità importante da coltivare.
I bambini e le bambine – sin dai primissimi mesi di vita – provano sentimenti di gioia e sofferenza empatica prima di percepirsi come entità separata dalle altre.
Succede che reagiscano al turbamento altrui come se fosse il proprio, ad esempio piangendo alla vista delle lacrime di un altro bambino, di un’altra bambina o dei propri familiari.
Questa è una capacità meravigliosa perché regola le radici delle relazioni ed è una capacità in grado di trasformarsi, se decidiamo di svilupparla, oppure no.
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È compito degli adulti aiutare i bambini e le bambine a sviluppare questo dono.
Come? Innanzitutto attraverso l’esempio. Nulla è più utile dell’esperienza diretta.La misura in cui noi stessi e noi stesse sapremo mostrare nei fatti cosa significhi ascoltare le persone, tenere conto dei punti di vista altrui e averne cura, sarà il dono prezioso che lasceremo loro per poter formare connessioni a livello profondo che orientino verso i sentimenti delle vite con cui tutti e tutte siamo interconnesse.
In che modo si formano nuove connessioni empatiche?
Quando l’attenzione si concentra su qualcosa, una serie di neuroni si attiva. E quando i neuroni si attivano insieme, creano connessioni fra loro. Allenare la mente verso un atteggiamento empatico favorisce – anche a livello biologico – un cambiamento nelle connessioni cerebrali.
Ma quali sono tutte le sfumature dell’empatia?
1.Punto di vista:la capacità di vedere la realtà con gli occhi di un’altra persona
2.Risonanza emotiva: capacità di sentire le emozioni di un’altra persona
3.Aspetto cognitivo: capacità di comprenedere a livello intellettivo il vissuto di un’altra persona.
4.Compassione: capacità di sentire la sofferenza dell’altro e nutrire il desiderio di alleviarla
5.Gioia empatica: capacità di gioire della felicità, dei successi e del benessere di un’altra persona
Attenzione alla compassione empatica!
Nutrire il desiderio di alleviare la sofferenza altrui è un sentimento molto bello se non rischia di sostituirsi al sentimento o alla volontà dell’altra persona.
È necessario sempre tenere a mente che esiste un equilibrio tra collegamento con l’altro/a e differenziazione dall’altro/a.
Quando viene a mancare la differenziazione – cioè si cerca di sostituirsi all’altra persona – l’empatia può sopraffarci e portarci all’esaurimento delle nostre energie, fondamentali per vivere in modo sano.
In un mondo che ci spinge all’individualismo e alla competizione già in età scolastica com’è possibile coltivare l’empatia?
È sicuramente molto difficile ma proprio per questo motivo è un lavoro indispensabile. Essendo una capacità modificabile sia in positivo sia in negativo, eliminare l’allenamento empatico porta – a lungo andare- ad atrofizzare le connessioni cerebrali utili alla cooperazione e alla collaborazione mentre l’allenamento in questi termini porta notevoli benefici: rispetto per gli esseri viventi, relazioni profonde e significative, scelte più predisposte all’altruismo.
#VIDEO sull’empatia: tristezza gioia ascolto
Le immagini come strumento per l’educazione emotiva
Cara Daniela, com’è possibile rappresentare un’emozione attraverso una illustrazione? Qual è stata la tua esperienza in questo libro?
“Leo” è un libro che parla di emozioni. L’emozione è chiaramente la protagonista. E l’emozione è qualcosa che si sente. Io ho uno stile evocativo, non descrittivo. Amo disegnare i volti, dunque ho cercato di immaginare le emozioni attraverso le espressioni del volto.
Avendo uno stile evocativo, sono riuscita ad adattare i miei disegni all’evoluzione del testo che, come avviene nella maggior parte dei casi, dalla prima stesura ha subìto diverse modifiche prima di raggiungere la forma definitiva.
Infatti, inizialmente la protagonista del libro era una bambina.
Ma viviamo in una cultura che assegna i ruoli di genere in modo marcato, come abbiamo detto nella chiacchierata con la Dott.ssa Cioni.
Ci dicono che esistono i giochi, i colori, i desideri, le parole, i vestiti, le emozioni per i maschi e per le femmine. Ovviamente non siamo d’accordo.
La scelta del sesso biologico maschile infatti è stata fatta per capovolgere questa costruzione sociale. Proprio per dare la possibilità al protagonista maschile di esprimere le sue emozioni.
Daniela, qual è il tuo stile?
Il mio è uno stile tradizionale, dunque per questo tema mi sono trovata molto bene.
Ad esempio, nella prima tavola di “Leo” non si vedono gli occhi. E per me gli occhi sono fondamentali. Scegliere di non disegnarli ha un significato importante.
Nel testo il protagonista sta sorridendo ma non sappiamo se è un sorriso spontaneo o meno. Ho scelto di non farli vedere per non far capire quale sia l’emozione.
Ci sono delle bambine e dei bambini che, attraverso le tue illustrazioni, sono riuscite a cogliere il tipo di emozione. Dunque una educazione emotiva attraverso le immagini è possibile.
Ne sono felice perchè significa che arriva. Le immagini ricalcano la storia ma sono anche una storia a sè. Si potrebbe pensare di riscrivere un’altra storia…
Qual è la tavola in cui ti rispecchi di più?
Probabilmente quella con Leo che se ne va in bicicletta solo soletto rimuginando su mille cose…
Da piccola ero così – e lo sono ancora in realtà – trascorrevo molto tempo da sola e pensavo tanto, anche troppo! E poi la tavola affianca il capitolo del libro che inizia con: “La domenica è il giorno della settimana che mi piace di meno…”. Sono d’accordo. La domenica non mi è mai piaciuta, è un giorno malinconico…
Raccontaci qualcosa sulla modalità di creazione di una immagine
Non ho una vera e propria tecnica. Utilizzo media tradizionali come matite, tempera, acrilico, a volte i colori ad olio e questo conferisce alle illustrazioni un sapore diverso, più caldo. In questo caso si adatta bene alla rappresentazione delle emozioni.
A questo punto, voglio ringraziarti Chiara, per aver curato nei minimi particolari ogni aspetto del libro perchè non è scontato per un’editrice o un editore. Il formato, la grammatura della carta, il colore, la font, sono tutti aspetti fondamentali soprattutto in un albo illustrato.
La scelta accurata della carta ha permesso di valorizzare al meglio le mie illustrazioni, obiettivo non semplice da raggiungere! Sono davvero felice di come sia venuto questo lavoro.
Ed io ti ringrazio per la fiducia che mi hai dato.
Come sai, ma lo diciamo anche a chi ci legge, ho scelto un formato orizzontale – più utilizzato all’estero che in Italia – per una lettura accompagnata, per invitare al dialogo e alla riflessione. La grammatura e il colore della carta per mettere in risalto le illustrazioni. La font ad alta leggibilità per aiutare chi ha difficoltà nella lettura (DSA).
Sono molto soddisfatta anche io del risultato che abbiamo avuto.
Ultima domanda: questo libro parla di emozioni e quindi di cura e amore. Cos’è per te la cura?
La cura parte da una presa di coscienza, da una consapevolezza. È essere in empatia con qualcuno ed essere presente non solo fisicamente ma anche psicologicamente.
È un percorso da fare insieme.
Educazione emotiva. Presentazione del libro “Leo”
“Leo” nasce, come gran parte dell’idea editoriale di Chiara Editrice, con l’esigenza di proporre tematiche come la malattia, il lutto, la separazione dei genitori, l’orientamento, l’identità sessuale, la diversità linguistica, culturale e molto altro. Tutti temi che fanno parte della nostra realtà ma, forse, non ancora di quella che usiamo chiamare la nostra “normalità”.
Ma cos’è la normalità se non qualcosa che siamo abituate/i a vedere, qualcosa che siamo riuscite/i a far entrare dentro di noi e con cui, bene o male, conviviamo.
Dott.ssa Cioni, qual è il rischio psicologico di creare o alimentare un tabù?
Alimentare i tabù significa alimentare i pregiudizi, la diffidenza e questo i bambini lo imparano in famiglia. Pensiamo all’infanzia e all’importanza dell’educazione dei genitori verso “l’altro”, “il diverso”, “lo straniero” in generale. Negli ultimi anni i genitori si lamentano degli atti di bullismo. Ma la maggior parte dei fattori va ricercata proprio in casa.
Dovremmo rivedere il sistema dei valori della famiglia e quando parlo di famiglia non intendo solo quella tradizionale ma ciò che essa rappresenta. Dunque non solo uomo-donna ma tutte le figure di attaccamento e di accudimento dei bambini e delle bambine.
In generale, ignorare qualcosa impedisce di conoscerla mentre crescono gli stereotipi che creano distanza e diffidenza. Il risultato non può che essere la paura.
Ma andiamo al libro.
Leo è un bambino come tanti. Figlio più piccolo di una una famiglia – in questo caso – composta da madre, padre, sorella e fratello. Tra lui e il resto del nucleo familiare esiste una notevole distanza di età.
Il libro si apre con uno spaccato di vita familiare in cui viene introdotta, sin da subito, la formalità dei personaggi nonostante la delicatezza del momento che vivono: la malattia della mamma.
Dott.ssa, come reagiscono di solito le famiglie in una situazione di malattia di un familiare?
Di solito le figure di attaccamento cercano di predisporre una rete di protezione nei confronti dei minori e questo è istintivo, naturale. Fa parte un po’ del concetto di sopravvivenza ed è umanamente comprensibile.
In realtà quello che noi professionisti del settore cerchiamo di spiegare ai genitori è di accompagnare i bambini e le bambine nella sperimentazione della gamma di emozioni che vanno dalla gioia al dolore.
È necessario che sperimentino tutto, che non siano protetti da ciò che è brutto e doloroso perchè l’incontro con il dolore prima o poi avverrà. Per questo è meglio affrontarlo insieme nelle varie tappe evolutive, ricordandoci che le emozioni sono presenti in noi sin dai primi mesi di vita e fanno parte del nostro corredo genetico. È qualcosa di cui non possiamo fare a meno e a cui non possiamo sfuggire.
Se non c’è esposizione al dolore non si sviluppano quegli “anticorpi” necessari per affrontarlo in età adulta.
Nel nostro caso, il piccolo Leo non ci sta a questo evitamento della realtà.
Il suo spirito speculativo mette a dura prova i suoi familiari che, in tutti i modi, cercano di evitare o soffocare il dolore che, indubbiamente, loro stessi provano.
Leo vuole risposte dagli adulti e, a modo suo, si fa sentire: con le domande, con la rabbia, con i mal di pancia, con l’enuresi notturna: quell’atto involontario di bagnare il letto durante la notte (altro tabù da sdoganare che probabilmente merita un capitolo a parte insieme all’importanza di ascoltare i sintomi, propri e altrui).
Leo: una guida emotiva familiare, fa un po’ l’adulto della situazione.
Una delle tappe fondamentali del ciclo vitale del bambino è la conquista della regolazione emotiva che si impara con le figure di attaccamento in modo da vivere le emozioni in maniera adattiva. Questo accade se i genitori si occupano e si preoccupano di dare al loro figlio quella che viene definita educazione emotiva.
Cosa significa educazione emotiva?
È l’abilità di processare informazioni di natura emozionale. Ciò implica la percezione, la comprensione e la gestione delle emozioni.
Nello sviluppo dell’intelligenza emotiva lavoriamo sulla percezione e identificazione delle emozioni, sulla capacità di mettere in relazione cognizione ed emozione, sulla comprensione della natura e gestione efficace delle emozioni.
Un adulto con una buona competenza emotiva è una persona in grado di riconoscere il ruolo che le emozioni hanno giocato nel suo percorso di sviluppo e nella sua storia relazionale. Di conseguenza è una persona in grado di gestire, regolare le proprie emozioni e di riconoscere quelle altrui, favorendo le relazioni positive per la propria crescita.
Nel nostro paese, l’educazione emotiva, sembra essere ancora culturalmente molto lontana, mentre altrove esistono programmi specifici molto utili per sviluppare determinate competenze.
In alcune famiglie accade mentre in altre c’è ancora poca attenzione. Ma quando accade qualcosa di inaspettato, la rete di protezione che viene creata si rivela inconsistente perchè si cerca di controllare qualcosa che non è controllabile. È come mettere i chiodi a una porta di legno quando arriva un uragano. A lungo andare può essere dannoso.
Nel libro si parla di un argomento serio che, in molti casi, dicevamo, spaventa perchè esistono diversi dubbi su come affrontarlo. Però se ne parla anche in modo ironico e alcuni passaggi possono suscitare ilarità o curiosità, come la figura del cardinale…
Questo personaggio, insieme a qualche altro dettaglio, ha una funzione ben precisa: quella di identificare il piccolo protagonista in un ceto sociale abbiente e ben istruito per sottolineare che non esiste alcuna correlazione tra analfabetismo emotivo e livello di istruzione.
Assolutamente. Non è detto che in una famiglia di operai l’educazione emotiva non sussista e in una famiglia di professionisti questa avvenga.
È la qualità dei rapporti che fa di un genitore una figura accudente e non il peso economico che sostiene.
Certo, fa rabbia pensare che chi ha le possibilità o gli strumenti non approfondisca un aspetto che riguarda una responsabilità personale oltre che relazionale.
Noi sistemico relazionali siamo abituati a ragionare non rispetto ai genitori ma rispetto ai nonni: infatti parliamo di trigenerazionalità. Quando un bambino viene in terapia, dobbiamo osservare come funziona l’intero sistema.
Passiamo all’ultimo argomento.
Viviamo in una cultura che assegna i ruoli di genere in modo marcato. Esistono i lavori, i giochi, gli sport, i colori, i desideri, gli amori, le aspettative, le parole, i vestiti, le leggi, gli stipendi e le emozioni per il maschio…e per la femmina.
La scelta del sesso biologico maschile è stata fatta proprio per dare la possibilità ai bambini di potersi identificare in comportamenti che la nostra cultura ha assegnato alle bambine, come per esempio la dimensione del pianto.
Quante volte sentiamo pronunciare “non piangere, sei un maschietto” ,”non piangere sei forte”, “non piangere, ormai sei grande”?
Come se il pianto avesse un sesso, un’età o delle qualità precise per poter essere espresso.
Il pianto ha una sua funzione fondamentale, profonda, eppure viene spesso stroncato aumentando un senso di inadeguatezza e frustrazione.
Correlare il pianto alla fragilità piuttosto che alla forza è un errore da cui sarebbe l’ora di liberarci.
Uno dei compiti evolutivi degli adulti è quello di dare legittimità alle emozioni.
Minimizzarle non aiuta di certo a scioglierle.
Se l’intento dell’adulto è quello di “far smettere di piangere”, sarebbe più sensato accogliere l’emozione affinchè non si trasformi in altro, ad esempio, in rabbia.
Cosa potremmo dire a un/a bambino/a che piange?
Cosa ti fa piangere? Come ti fa sentire questa cosa? E ascoltare, senza giudizio.
Ma per far questo bisognerebbe preparare prima gli adulti…
“Leo” è un libro trasversale, una guida emotiva familiare.
È un libro che ha l’intento di supportare prima di tutto gli adulti ad affrontare le proprie paure.
A prescindere da quello che la vita ci riserva, sviluppare una capacità nel riconoscere e accogliere le emozioni che sentiamo non solo ci permette di diventare adulti consapevoli, con una vita soddisfacente, ma anche di lasciare questo prezioso e indispensabile bagaglio alle vite future.
Antropologia del dolore
È interessante però notare come il rapporto della umanità con il dolore, e in particolare la morte, sia cambiato con il trascorrere dei secoli, tanto da poter identificare plurime umanità.
La disciplina che si dedica allo studio di questo fenomeno è l’antropologia culturale,
un vasto puzzle composto da molte tessere identificabili in fonti dirette o indirette del passato.
Per capire infatti quale fosse il modo di pensare di una civiltà del passato è necessario analizzare
gli scritti, le arti, i monumenti, ma anche le sepolture dei propri morti, e in questo campo
l’archeologia funeraria ne è la bussola.
Ogni sistema sociale elabora un rituale funebre proprio, in cui la pratica funeraria funge da sistema di comunicazione che trasmette informazioni sul defunto alla comunità dei vivi. O meglio, il trattamento del deceduto serve a enfatizzare i diversi ruoli sociali che la persona aveva avuto in vita.
Una vera e propria antropologia della morte.
Più il sistema sociale era complesso e più i ruoli aumentavano. Quindi la variabilità funeraria riflette il livello di complessità organizzativa del sistema sociale. La conseguenza di tutto ciò è la formulazione di quella che viene definita ‘antropologia della morte’, ovvero l’analisi del rapporto che ogni società ha con il trapasso dei propri membri.
Una interessante analisi dell’evoluzione degli atteggiamenti è quella formulata dallo storico Philippe Ariès (1914-1984) che identifica 5 momenti storici corrispondenti a 5 visioni differenti della morte.
Morte nell’evoluzione culturale umana
1. “La morte domestica”. Tipica dell’antichità classica ed alto medioevo, in cui la vita media
era molto bassa, per cui l’atteggiamento nei confronti della morte era di rassegnata accettazione. La morte era un evento domestico, familiare, naturale ed inevitabile.
2. “Morte di sé”. Nel basso medioevo si diffonde la concezione di tragico destino personale,
ovvero la morte come evento fisico e di sofferenza.
3. “Morte lontana e imminente”. È la concezione della morte distaccata dalla vita quotidiana,
ma sempre imminente, che si sviluppa prevalentemente alla fine del XVI secolo.
4. “Morte dell’altro”. Nella seconda metà del XVIII secolo fino al XIX secolo nasce il fascino
“romantico” del letto di morte. Il decesso è sentito all’interno dei legami affettivi familiari e romantici.
5. “Morte capovolta”. E’ il rapporto che ha la nostra società con la morte, che appare come un
fenomeno alieno al mondo dei vivi. E’ quasi un tabù, da nascondere anche al morente. La
morte viene “ghettizzata” negli ospedali.
Chiaramente questa evoluzione viene condizionata da molteplici fattori, tra cui soprattutto la
religione. Nell’antichità, quando la morte era ‘domestica’, il moribondo aveva coscienza della
propria condizione e le persone a lui care si abbandonavano al cordoglio con manifestazione
catartiche di dolore.
Vi erano quindi dei riti di passaggio necessari per placare l’anima del defunto che vagava inquieta, al termine dei quali i superstiti tornavano presto ad una vita normale. Il “viaggio” ed il “vagare” dell’anima viene sostituito poi con il Purgatorio nel XII – XIII secolo.
Successivamente, con la Riforma, la Chiesa Cattolica abolisce il concetto di “durata” relativo alla morte e la concezione dei riti di passaggio, per cui impone dei riti immediatamente consecutivi all’evento. Nel XVIII secolo quindi il funerale perde la sua valenza di rito di passaggio e diventa momento unico. Da qui si giunge ai giorni nostri, con la morte che diventa aliena al mondo del vivi che quindi non può più essere vista, citata o pensata.
Avere uno spirito critico sulla vita è importante.
E imparare a comprendere la morte nell’evoluzione culturale umana è fondamentale.
Letture consigliate:
– Ariès P. Essais sur l’histoire de la mort en Occident: Du Moyen Age à nos jours. Rizzoli, 1978.
– Ariès P. L’uomo e la morte dal medioevo ad oggi. Laterza 1980.
– Assmann J. La morte come tema culturale, Einaudi 2002.
– Favole A. Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte, Laterza 2003.
– Grmek MD. La malattia all’alba della Civiltà occidentale, Ed. Il Mulino 2013 (ristampa).
– Hutington R, Metcalf P. Celebrazioni della morte. Antropologia dei rituali funerari, Il Mulino
1985. (Celebration of Death. The Anthropology of Mortuary Ritual, Cambridge 1979).
– Tartari M. (a cura di) La terra e il fuoco. I riti funebri tra conservazione e distruzione. Roma
1996.
– Van Gennep A. Les rites de passage, Parigi 1909; (trad. it. I riti di passaggio, Bollati
Boringhieri 1981).
Desidero ringraziare il mio maestro, Prof. Gino Fornaciari (Università di Pisa) per le preziose
lezioni di ‘archeologia funeraria’.
Dott. Raffaele Gaeta
Divisione di Paleopatologia, Università di Pisa
Riflessioni sulla pandemia: opportunità di crescita, empatia e responsabilità globale
La pandemia da COVID-19 ha portato sfide senza precedenti nel nostro quotidiano, ma anche opportunità di crescita e responsabilità globale. In questo articolo, esploreremo come le difficoltà degli ultimi mesi possano trasformarsi in occasioni di sviluppo personale e connessione sociale, invitando alla riflessione su come affrontare le sfide attuali con empatia e collaborazione.
Tutte e tutti abbiamo un sogno, un motivo nella nostra pancia per cui valga la pena lottare.
Ma la distrazione quotidiana e la mancanza di fiducia nelle nostre capacità, possono giocare un ruolo negativo per realizzare quello che sentiamo, se siamo capaci di ascoltarlo.
Le difficoltà che stiamo incontrando negli ultimi due mesi per la pandemia dovuta al COVID-19, possono essere trasformate in una occasione per crescere, per imparare a empatizzare con chi le difficoltà le vive sempre, in tanti modi diversi, in tanti modi invisibili…ai nostri occhi.
Un invito a cambiare prospettiva
Potremmo utilizzare questo cambiamento della nostra vita relazionale e lavorativa per vivere qualitativamente le nostre giornate, per entrare in contatto con noi e per imparare ad amare l’Altro. Il diverso da noi. Quello che non siamo abituate/i a guardare.
Siamo obbligate/i a cambiare lo stile di vita soprattutto per le persone fragili fisicamente. C’è stato chiesto uno sforzo, neanche troppo grande, di rimanere nelle nostre case per proteggere non solo noi ma soprattutto le persone anziane e immunodepresse.
C’è stato chiesto di essere persone altruiste e collaborative perchè maturando una responsabilità individuale possiamo essere in grado di collaborare in modo globale.
Allora cosa succederebbe se imparassimo più spesso a cambiare il nostro punto di vista?
Se scoprissimo che uomo e donna, bianco e nero, etero e omosessuale, cisgender e transgender, ricco e povero, abile e disabile hanno gli stessi sogni ma possibilità differenti.
Se ci accorgessimo che per centinaia, migliaia di persone, sarebbe un sogno non patire la fame, la guerra, la malattia, la violenza, la discriminazione, l’isolamento…
Se questa situazione fosse un’occasione per sviluppare un senso di responsabilità nei confronti della nostra vita e di quella degli altri…
Se imparassimo, da questa nostra difficoltà, che esistono problemi molto più invalidanti e drammatici,
come useremmo il privilegio di essere dalla parte fortunata?
Pandemia, crescita e responsabilità globale
Se questa fosse una opportunità per pensare all’umanità in modo diverso, più collaborativo, empatico,
saremmo capaci di coglierla?
Cosa sono i DSA? Intervista al Presidente dell’Associazione Italiana Dislessici di Pisa
Biagioni, cosa significa DSA?
DSA è un acronimo che sta per Disturbi Specifici dell’Apprendimento. I DSA sono quattro: dislessia, discalculia, disortografia e disgrafia.
Fino a poco tempo fa si usava la parola dislessia come termine generico per indicare un ragazzo o una ragazza che, in realtà, è un DSA.
Quali sono le caratteristiche della dislessia, discalculia, disortografia e disgrafia?
La dislessia è una difficoltà relativa alla lettura, sia per quanto riguarda la velocità sia per quanto riguarda la correttezza del contenuto. Se consideriamo la curva gaussiana, un ragazzo o una ragazza dislessico/a è nell’area deficitaria rispetto alla media standard.
Può leggere abbastanza velocemente e compiere molti errori. Anche se è più riscontrabile che faccia una lettura più lenta ma corretta.
Chiaramente dipende tutto dalla severità della dislessia, aspetto molto importante da introdurre: non tutti sono dislessici allo stesso modo.
La discalculia, invece, è una difficoltà delle abilità logico-matematiche. Ne esiste una di tipo procedurale che si manifesta in comorbidità con gli altri DSA e che riguarda le automatizzazioni: tabelline, incolonnamenti etc. E ne esiste una profonda: questa si presenta separata dagli altri DSA e può chiamarsi anche discalculia pura. In questo caso si ha una difficoltà nella visione generale del numero: non si comprende la sua grandezza.
La disgrafia è una specifica difficoltà dello scrivere con la penna.
Difficoltà di tipo visivo-spaziale, ad esempio, che riguarda i margini del foglio oppure grafo-motoria nel recupero dello schema motorio della lettera.
La disortografia, ultima non per importanza, è una complessità relativa all’automatizzazione delle regole grammaticali. Possono essere omesse o aggiunte sillabe, invertite lettere, può esserci uno scambio di grafemi omofoni etc. Esistono gli errori non plausibili fonologicamente e quelli plausibili fonologicamente.
Dopo questa panoramica che sicuramente merita di essere approfondita, passiamo al linguaggio corretto da utilizzare: i DSA sono malattia, una caratteristica? Come possiamo definirli?
Il termine corretto da utilizzare è neurodiversità.
In un cervello di un normo lettore e in un cervello di un dislessico, per esempio, durante la lettura si attivano aree diverse, evento riscontrabile attraverso una risonanza magnetica funzionale.
Le cause sono organiche e genetiche.
Essere un DSA comporta tutta una serie di problemi. Ma questo aspetto può diventare anche un punto di forza, una caratteristica appunto. Come esistono le aree deficitarie, esistono le aree in cui un DSA brilla: ad esempio nell’area uditivo-verbale e nell’area della memoria visivo-spaziale. Coltivare i punti di forza è sicuramente un vantaggio.
Qual è l’età per poter fare una diagnosi completa?
Per la dislessia già dalla fine della seconda elementare, mentre per la discalculia dalla terza. Il mio consiglio è quello di aspettare la terza elementare per poter avere una diagnosi approfondita.
Chiaramente prima arriva e prima si può pensare di integrare un percorso e suggerire una strumentazione per lo studio. Le diagnosi che arrivano tardi complicano la situazione e mettono in atto tutta una serie di sistemi di compensazione, talvolta, faticosi.
A chi ci si deve rivolgere quando si ha un sospetto di DSA?
Ci si può rivolgere sia a strutture private accreditate sia alle ASL. Essendoci quasi il 4% dei DSA nelle scuole, le liste di attesa sono lunghe.
La diagnosi deve essere fatta da una équipe di psicologi, logopedisti e neuropsichiatri. Il lavoro e il confronto del gruppo sono fondamentali.
La collaborazione scuola-famiglia può essere determinante, il personale scolastico è preparato alla soggettività degli alunni o l’approccio è ancora standardizzato?
E poi, le famiglie come reagiscono alla diagnosi?
Quando arriva una diagnosi di DSA la famiglia si spaventa. L’idea che il proprio figlio abbia un diverso funzionamento del cervello fa paura.
Ma il bambino deve potersi sentire in un ambiente protetto dove i genitori credono in lui.
I DSA sono bambini/e intelligenti. Se iniziano a sentirsi stupidi/e perché a scuola i voti sono brutti e a casa vengono visti come pigri/e , il rischio è che venga lesa l’autostima. E questo comporta tutta un’altra serie di problemi a cascata.
La scuola ha un metodo che non è adatto a uno/a studente/ssa DSA. Le lezioni frontali e il metodo di studio basato solo sulla letto-scrittura sono un problema. Un/a DSA avrebbe molti più benefici nelle lezioni in cui vi è la possibilità di un confronto e in cui vi è l’utilizzo di strumenti come mappe e video.
Ciò che ancora poco si considera è che più una scuola è sensibile ai DSA più a beneficiarne è tutta la classe. Qualsiasi bambino/a risponde positivamente a un approccio di studio di questo tipo.
Cosa sono gli strumenti compensativi e i metodi dispensativi? Chi li usa è facilitato?
Esempi di strumenti compensativi sono la sintesi vocale, la calcolatrice vocale, il correttore ortografico, la tastiera di un computer.
Chi li usa è facilitato nell’arginare, in parte, la propria difficoltà e non nella finalizzazione del compito. Si risparmia quell’energia e quel tempo per rispondere alla domanda ma chiaramente il contenuto della risposta fa parte della preparazione dello/a studente/ssa.
Per quanto riguarda le misure dispensative, per legge, deve essere dato il 30% in più del tempo durante una verifica oppure, le stesse, devono essere ridotte, non per contenuto ma per ampiezza, in modo tale da permettere di svolgere l’intero compito.
Dare strumenti compensativi, però, non basta. Bisogna darli in base alle caratteristiche del/lla ragazzo/a.
Tutti i DSA sono diversi perchè tutti i bambini/ragazzi sono diversi.
È possibile scoprire di avere un DSA in età adulta? La diagnosi è sempre utile?
Assolutamente sì. Capita sempre di più che genitori, portando i/le propri/e figli/e a fare un controllo, scoprano di avere loro stessi un DSA. Come dicevo prima, molti comportamenti che in passato sono stati attribuiti alla pigrizia oggi hanno un nome specifico. Ricevere una diagnosi fa parte del percorso di consapevolezza di una persona. Per tante, la diagnosi, è una liberazione per altre è la consacrazione di una etichetta.
Cosa diresti a un bambino/adolescente con DSA nel pieno delle difficoltà?
Gli direi di stringere i denti, di credere nelle proprie potenzialità e negli strumenti che gli vengono offerti (che a volte non danno subito il risultato sperato). Gli racconterei che la strada è in salita e il lavoro da fare è tanto ma gli vorrei ricordare che sono in buona compagnia: Einstein, Walt Disney, Edison, Leonardo da Vinci, J.F. Kennedy, Jhon Lennon, Churchill, sono solo alcuni dei personaggi famosi che hanno saputo far brillare il proprio genio nonostante, o soprattutto, fossero con DSA.
Hanno avuto la fortuna e la capacità di scoprire le proprie passioni, hanno coltivato gli aspetti in cui brillavano di più e sono stati disposti a sudare per quello che amavano.
Attenti al lupo?
L’idea che un bambino o una bambina possano essere vittime di un abuso sessuale da parte di un adulto è un’immagine che fa rabbrividire e, come tutte le cose che spaventano, la tendenza è quella di allontanarne il pensiero.
Ma la pedofilia esiste ed è un fenomeno molto frequente (1 bambino su 5 ne è vittima), vive in un mondo sommerso e, se non impariamo a conoscerlo, ad avere il coraggio di farlo emergere, rischiamo di tramandare errori molto gravi.
Alcuni di noi sono cresciuti con la favola di Cappuccetto Rosso: una bambina che vive con la mamma nel bosco. Un giorno, mentre porta un cestino di frutta alla nonna ammalata, incontra un lupo nero che tenta di approfittarsi di lei per poi essere salvata dal buon cacciatore.
Una favola piena di stereotipi
Questa fiaba, come tutti i racconti folklorici di origine popolare, è ricca di stereotipi molto conservatori: la donna adulta è necessariamente una mamma (categoria che include il lavoro emotivo e, dunque, la premura); la donna anziana è necessariamente una nonna (e dunque in condizione di svantaggio); il lupo, generica allegoria del pericolo in cui ci si può imbattere quando si travalicano i confini della civiltà (il piccolo villaggio) e ci si inoltra nella natura, in ciò che è “selvaggio” (il bosco), è rigorosamente nero (si potrebbero cogliere numerose implicazioni razziali, specialmente quelle per cui sono le persone non bianche ad occupare i poli della “natura” contro la “civiltà”); l’uomo è un cacciatore (bianco, buono, coraggioso, pronto a rischiare la vita per salvare le donne deboli).
Eppure questa fiaba, raccolta dai fratelli Grimm nella loro antologia di racconti tedeschi, non menziona il fatto che molto spesso gli agenti del pericolo non sono estranei, ma proprio le persone che frequentiamo e con cui abbiamo maggiore familiarità. Infatti, la maggior parte degli abusi avviene in famiglia o, comunque, in un ambiente che le bambine e i bambini frequentano quotidianamente.
La casistica è quasi unanime: il pedofilo è una persona con cui il bambino trascorre del tempo; può essere un genitore, un parente, un allenatore sportivo, un prete, un insegnante. Non esiste un limite al ruolo che ha, alla classe sociale di appartenenza o al suo genere sessuale. Non si aggira per strada cercando di adescare regalando caramelle e non ha scritto sul viso: “io sono il cattivo”.
Il pedofilo è una persona di cui il bambino si fida.
Spesso non sa di essere “cattivo” perché quello che instaura con la vittima, per lui, non è grave. E cerca di convincere il bambino a considerare quegli abusi un segreto da non rivelare.
La pedofilia è un fenomeno sociale e psicologico che anche discipline medico scientifiche hanno cercato di analizzare, con risultati spesso inconcludenti dovuti alla rarità con cui una persona che si identifica come “abusante” si sottoponga spontaneamente alle cure.
La vita degli abusati, invece, viene segnata da depressione, ansia, disturbi della sfera sessuale. Talvolta, diventati adulti, decidono di affrontare la lacerazione del trauma. Ma capita che spesso l’abuso venga rimosso, essendo il ricordo troppo pesante da sostenere.
E se questa è una realtà drammatica, lo è ancora di più quella in cui, a volte, il pedofilo viene “coperto” dagli stessi familiari della vittima che sanno e tacciono, condannando il bambino o la bambina ad essere vittima per la seconda volta. (Questo aspetto verrà argomentato in un altro articolo).
E allora come difendersi dalla pedofilia?
Il Consiglio d’Europa, qualche anno fa, ha realizzato una campagna per aiutare i bambini a proteggere il proprio corpo e insegnare loro ad instaurare un dialogo con gli adulti utilizzando un linguaggio semplice e chiaro. Qui di sotto i punti essenziali:
La violazione delle loro parti intime e del loro corpo è spesso vissuta dai bambini come un motivo di vergogna, come qualcosa da nascondere, una colpa personale. Sono gli adulti che devono insegnare ai piccoli ad avere il coraggio di denunciare episodi che creano in loro tensione e ansia. Se i bambini hanno paura, i grandi non devono averne.
LA RESPONSABILITÁ DELLA PREVENZIONE E DELLA PROTEZIONE SPETTA A UN ADULTO.
In generale, è buona abitudine osservare qualsiasi cambiamento nel comportamento dei piccoli: irrequietezza, sbalzi d’umore, enuresi , inappetenza, disturbi del sonno, problemi scolastici, a volte, possono essere segnali di un trauma molto profondo.
Saper intervenire tempestivamente può essere un aiuto prezioso per l’integrità della salute dei nostri bambini.
Chiara Montone d’Emilia
www.chiaraeditrice.com
La paleopatologia: una scienza tra passato, presente e futuro
Nel campo degli studi e della ricerca c’è ancora la vecchia abitudine di distinguere le discipline ‘umanistiche’ da quelle ‘scientifiche’, cercando quasi sempre di cimentarsi nell’inutile dissertazione su quale sia la più importante.
Introduzione alla paleopatologia
Al giorno d’oggi non è più possibile ragionare con categorie così indipendenti e non comunicanti; vi è, ad esempio, un settore che incarna al meglio la sinergia e la compenetrazione tra questi due mondi: la paleopatologia.
Si tratta infatti della scienza che studia le malattie e la condizione di salute (e quindi di vita) delle popolazioni del passato attraverso l’analisi delle ossa e delle mummie.
La storia, l’archeologia, l’antropologia, la medicina e l’anatomia patologica sono le discipline che principalmente compongono il puzzle della paleopatologia che ha scopi di tipo storico, ovvero quello di compilare la ‘cartella clinica’ di personaggi del passato (da Carlo Magno a Napoleone), e in ambito scientifico, che è quello di capire l’origine e l’evoluzione delle malattie per prevedere il loro sviluppo futuro.
Metodologie e studi
I reperti studiati nei nostri laboratori di Pisa sono scheletri o mummie che appartengono a diversi periodi storici (dall’età etrusca al 1800, con prevalenza per il periodo medioevale) scavati in vari siti archeologici italiani oppure identificati in ricognizioni effettuate in chiese o cripte a fine di studio, ma anche di conservazione e restauro.
I reperti vengono usualmente sottoposti ad un attento studio antropologico in cui si identifica l’età, il sesso, la statura ed eventuali traumi o malattie sofferte dal soggetto, seguito poi da indagini più ‘sofisticate’ come la TAC, lo studio della dieta tramite gli isotopi, prelievi istologici e addirittura, in alcuni casi, l’analisi del DNA.
Queste valutazioni sono poi integrate grazie all’apporto degli storici che, con lo studio delle fonti antiche e degli archivi, forniscono informazioni necessarie per arrivare ad avere il quadro completo su come un personaggio del passato o una determinata popolazione antica vivesse, lavorasse o si ammalasse.
Una finestra sull’infanzia
Naturalmente, i paleopatologi esaminano la condizione di salute e di vita dei bambini e come le varie culture abbiano considerato l’infanzia nel corso del tempo.
Affrontare tale argomento significa inevitabilmente fare i conti con episodi di violenze, privazioni ed aspre sofferenze perché fino a non molti decenni fa la mortalità perinatale ed infantile era altissima; tuttavia questo lato ‘struggente’ viene ampiamente compensato da inaspettati gesti affettuosi, premure ed attenzioni che vengono, a torto, considerate solo peculiari della società moderna.
In questa rubrica proverò a raccontarvi, mediante gli studi paleopatologici e i dati storico-archeologici, l’infanzia nel passato attraverso un viaggio dall’età classica a quella dei Lumi, cercando di fare luce sui lati più oscuri e mostrando i lati sorprendenti e in larga parte sconosciuti.
Dott. Raffaele Gaeta
Medico anatomo patologo, Divisione di Paleopatologia, Università di Pisa
“La parola è il prodotto di una cultura”
È così che Marco Aime scrive in una lettera aperta a un bambino rom nel libro -“La macchia della razza”- edito da Elèuthera, soffermandosi sul valore profondo della parola.
In un momento in cui tutto sembra lecito in nome della “libertà di pensiero”, con una eleganza disarmante, Aime ci aiuta a percorrere il cammino della discriminazione quotidiana, della violenza verbale, della paura dell’Altro, il diverso da noi (noi chi?).
Antropologo di fama internazionale, insieme a Marc Augé (premessa) e Guido Barbujani (postfazione), Aime ci fa riflettere sulla dicotomia che viviamo dai tempi del colonialismo (questo sconosciuto), oggetto di studio dell’antropologia culturale: l’incontro-scontro tra le culture, quella dominante e quella subalterna.
Ma se il confronto con l’Altro è lecito quando è mosso da uno spirito di conoscenza, rispetto e crescita reciproca, non lo è quando il pensiero è viziato da pregiudizio, ostilità, odio.
E quando la possibilità di esprimersi incontra l’odio, ecco che “semplifichiamo la vita degli altri per rendere più semplice la nostra”.
Succede quello che gli antropologi definirebbero “essenzialismo”, cioè ridurre una cultura a essenza, chiaramente in termini negativi. Ed è una operazione pericolosa e sicuramente vantaggiosa per chi ne fa uno strumento di potere, perché diventa difficile, poi, restituire tutta quella complessità e unicità, ricca di sfumature proprie di un individuo, invece molto spesso facilmente stigmatizzata.
Ma per ogni comportamento esplicitamente violento e discriminatorio, riconoscibile anche ad un occhio poco allenato, ce ne sono decine, centinaia di altri meno visibili ma altrettanto pericolosi.
“Il razzista lo vedi, lo riconosci, lo senti parlare. Puoi combatterlo. Gli altri no. […] quelli che vedono, sanno e tacciono. Per questo fanno più paura.”
Sdrammatizzare la discriminazione rende lecita la violenza e la normalizza.
Con il debole alibi della difesa delle origini (quali origini? Le nostre? Quelle nomadi?) e dell’identità da proteggere (è davvero possibile delimitare un’identità?) ci trinceriamo nelle nostre case, in cerca di distanza e separazione, ergendo mura insormontabili con i mattoni delle nostre convinzioni e dei nostri pregiudizi.
Il razzismo culturale
“Siamo diventati razzisti senza nemmeno più bisogno della razza. Siamo dei fondamentalisti culturali, per i quali c’è un solo modo di vivere e pensare. Tutto il resto è da cacciare. Parliamo di scontro culturale ma in realtà siamo noi ad alimentare la cultura dello scontro.”
Un testo commovente che ci pone di fronte alla responsabilità di conoscere la storia, all’uso cosciente delle parole e alla consapevolezza (spesso assente) del nostro ruolo sociale.
Maturità biologica ed emotiva
Ciò significa, ragionevolmente parlando, che una persona adulta è potenzialmente più matura e in grado di fare scelte migliori rispetto a una persona giovane.
E allora come mai alcune persone biologicamente mature, che hanno condizioni di benessere fisico, un lavoro potenzialmente soddisfacente e una stabilità economica, le sentiamo affaticate, frustrate e stanche?
Quello che spesso ignoriamo è l’esistenza di un altro tipo di maturità – quella emotiva – che è fuori dalle dinamiche puramente biologiche e sociali, per nulla in relazione col tempo e col denaro. Anzi, nelle dinamiche coinvolte dalla maturità emotiva, il tempo gioca un ruolo negativo perché più trascorre in assenza di una educazione in questi termini e più il senso di fatica è difficile da sostenere.
Dunque esiste un equilibrio interno al quale non si dà ancora la giusta dignità, un po’ per retaggio culturale e un po’ per paura.
Ma è proprio quel mondo interno e, soggettivo, che se imparato a conoscere, permette di sentirci in equilibrio.
“L’universo delle emozioni”
Imparare a scoprire cosa sentiamo e riuscire ad accogliere le emozioni che viviamo, può dispiegare nuove e stimolanti possibilità alle nostre intelligenze, può aiutarci a costruire una salda autostima, a coltivare l’empatia e la gratitudine, a conoscere noi stessi nei nostri punti di forza e, soprattutto, ad accettare i nostri limiti.
Può aprire la possibilità di fare scelte in armonia con ciò che siamo e circondarci di persone che contribuiscono al nostro benessere e alla nostra crescita.
Raggiungere una maturità emotiva permette di avere sempre un buon livello di equilibrio interno, a prescindere dalle condizioni esterne che, invece, sono fuori dal nostro controllo e che a volte possono avere anche degli scenari drammatici: una malattia, una perdita, un trauma in generale.
La nostra è una società che ancora non prevede dei piani sistematici per questo tipo di educazione (come avviene, invece, in molti altri Paesi).
Sentire l’esigenza di affrontare questo aspetto fa parte di un lavoro personale che riguarda l’amore e la responsabilità che abbiamo verso noi stesse, noi stessi e le persone attorno a noi.