Viviamo in una società dove saper dire di no è ancora considerato un atto di rottura, spesso legato a egoismo, maleducazione o rifiuto dell’altro. Soprattutto per chi è stata educata o educato alla compiacenza, alla gentilezza a ogni costo, alla disponibilità illimitata, la semplice negazione può diventare una colpa. Ma da dove arriva questa difficoltà a porre limiti? E, ancora prima, cosa significa comunicare in modo assertivo?
L’equivoco culturale del “no”
In molte culture – e l’Italia, con il suo substrato cattolico e patriarcale, non fa eccezione – il “no” viene vissuto come un affronto, una trasgressione all’ordine familiare, sociale, affettivo. Le donne, in particolare, sono spesso cresciute con il mito della disponibilità, dell’altruismo, dell’empatia ad ogni costo. “Sii gentile”, “non fare storie”, “non dire di no”, “pensa agli altri”. Detti così, sembrano consigli innocui. Ma se si ripetono per decenni, diventano la gabbia perfetta.
Per gli uomini, invece, il “no” assume sfumature diverse ma altrettanto insidiose: spesso dire “no” è legato a un’idea di forza bruta, di autorità, di potere, non sempre accompagnata da consapevolezza e responsabilità emotiva. In entrambi i casi, manca una cultura della relazione fondata sull’ascolto di sé e sull’onestà comunicativa.
Assertività: una competenza sociale, non una dote naturale
La comunicazione assertiva è l’arte – sì, l’arte – di esprimere con chiarezza le proprie emozioni, i propri bisogni e i propri limiti, nel rispetto dell’altrui dignità e senza calpestare la propria. Non è né aggressività né passività. È una terza via che ci insegna che possiamo prenderci cura delle nostre relazioni senza rinunciare a noi stesse e noi stessi.
Non si nasce persone assertive. Si diventa. Ed è un percorso controculturale. Significa rieducare il nostro linguaggio, le nostre espressioni facciali, il nostro tono di voce. Ma prima ancora, significa lavorare sulla nostra autostima, sulla nostra legittimazione interna a esistere con i nostri “sì” e i nostri “no”.
Perché dire “no” ci fa sentire in colpa?
Colpa e vergogna sono le trappole emotive più potenti che la cultura ha piazzato lungo il cammino dell’autonomia. Il senso di colpa, in particolare, è il dispositivo psicologico che ci tiene legate e legati a ruoli precostituiti, a copioni relazionali tossici, a rapporti sbilanciati.
Dire “no” significa, spesso, deludere le aspettative altrui. E chi è cresciuta o cresciuto in ambienti in cui l’amore era condizionato all’obbedienza o alla prestazione affettiva, si porta dentro la convinzione che rifiutare qualcosa significhi perdere l’affetto, l’approvazione, il senso di appartenenza.
In questo contesto, la comunicazione assertiva è una piccola rivoluzione.
Educare all’assertività: un gesto culturale e psicologico
Parlare di comunicazione assertiva non è solo un discorso psicologico ma anche culturale. È rompere le catene di generazioni cresciute nella paura del giudizio, del rifiuto, dell’autorità. È insegnare a chi verrà dopo di noi – figlie e figli, persone giovani – che si può dire no senza essere persone cattive. Che si può dissentire senza distruggere. Che si può vivere pienamente senza svuotarsi per compiacere.
In una società iper-performativa, dove il valore di una persona sembra misurato dalla sua utilità, l’assertività è un atto di resistenza. È scegliere di non sovraccaricarsi, di non dire sì a ogni richiesta, di smettere di sacrificarsi sull’altare dell’altrui approvazione.
“No” è una frase completa
Non serve spiegare tutto, giustificarsi, fare mille premesse. La cultura del sì coatto ci ha insegnato a impacchettare ogni rifiuto in mille strati di parole, come se il nostro no fosse un’offesa da addolcire. Ma non lo è. È un atto di chiarezza, un confine sano, un gesto d’amore per sé e – spesso – anche per l’altra persona.
Eppure, per molte persone, imparare a dire no è un lungo viaggio. Richiede tempo, consapevolezza, cura. A volte serve una guida. Un sostegno. E va bene così.
La comunicazione assertiva non si insegna, si testimonia
Non basta leggere un manuale o imparare a memoria le tecniche della Programmazione Neuro Linguistica (PNL). L’assertività si apprende nella relazione, nel confronto, nello specchio altrui che ci restituisce uno sguardo non giudicante. Si impara in psicoterapia. Si modella osservando, ascoltando, riconoscendosi in qualcuna o qualcuno che ce l’ha fatta.
Ecco perché l’educazione assertiva dovrebbe entrare nei luoghi della formazione, nelle scuole, nei corsi per insegnanti, nei percorsi per genitrici e genitori. Perché imparare a comunicare in modo sano è un diritto e un bisogno.
Quando dire “no” diventa un atto d’amore
Dire “no” può voler dire: “Mi prendo cura di me per potermi prendere cura anche di te.” Può voler dire: “Mi rispetto e ti rispetto.” Può voler dire: “Mi assumo la responsabilità delle mie scelte, anche se ti dispiacciono.”
E può voler dire anche: “Ho smesso di farmi violenza per evitarti un disagio.”
In fondo, ogni “no” autentico è un “sì” a qualcosa di più profondo: a se stesse e a se stessi.
Se ti senti a pezzi per ogni “no” che dici
Allora non è un “no” che ti fa male. È tutto quello che ti hanno insegnato a temere: il giudizio, l’abbandono, l’idea che valga la pena solo se sei utile.
Questo spazio editoriale fa cultura psicologica, ma se senti che i tuoi “no” ti pesano come macigni, rivolgiti a professioniste professionisti della salute mentale. Sapersi ascoltare è già un primo atto di assertività.