In un’epoca in cui si dibatte sull’importanza di crescere con “una mamma e un papà” per la crescita di figlie e figli, vale la pena fare una riflessione — e soprattutto culturalmente e psicologicamente fondata — sulla differenza tra la capacità di riprodursi e quella di essere genitrici e genitori nel senso pieno del termine. Una differenza che segna la distanza abissale tra un atto biologico e una funzione psichica e relazionale. Perché no, non basta mettere al mondo un essere umano per saperlo accogliere, proteggere, guidare nella crescita e accompagnare nella vita. E no, non è il genere o l’orientamento sessuale delle figure adulte di riferimento a determinare il benessere di chi cresce. È la qualità della loro funzione genitoriale a fare davvero la differenza.
La funzione genitoriale: un’arte che si impara
Funzione genitoriale è un’espressione densa, che appartiene al vocabolario della psicologia dello sviluppo, ma che merita di essere restituita anche alla dimensione culturale collettiva. Non si tratta di un ruolo sociale, non si riduce al nome su un certificato di nascita. È un insieme complesso e stratificato di capacità affettive, emotive, cognitive e pratiche, che una persona mette in campo quando si prende cura del processo di crescita di un’altra.
Questa funzione non è appannaggio esclusivo di chi ha generato biologicamente. Può essere esercitata da chiunque sappia assumersi la responsabilità di sostenere il bisogno dell’altra o dell’altro, di contenerne le paure, di reggere la frustrazione, di nutrire il desiderio, di proteggere e di lasciare andare. Si tratta di una funzione che si costruisce, che si apprende, che richiede un continuo lavoro su di sé.
Una madre può non assolvere questa funzione. Un padre può non incarnarla mai, anche se ha generato biologicamente. Così come due donne, due uomini o una coppia queer possono invece offrirla in modo pieno, maturo, amorevole, trasformativo. La funzione genitoriale non ha genere. Ha struttura, ha senso, ha etica.
Competenza genitoriale: la vera base per crescere bene
Parlare di competenza genitoriale significa spostare lo sguardo dalla struttura familiare alla qualità relazionale. Le domande da porci non sono “ha una mamma e un papà?” ma piuttosto: “quella bambina è ascoltata?”, “quel bambino è accolto?, “ha la possibilità di esprimersi in sicurezza?”, “vengono rispettati i suoi bisogni emotivi e cognitivi?”, “si sente al sicuro?”, “si sente amato?”.
Tutte e tutti, nella propria infanzia, hanno sperimentato la presenza o l’assenza di questa competenza. Moltissime persone adulte oggi convivono con ferite aperte inflitte non dall’assenza di una madre o di un padre, ma dalla loro presenza distruttiva. Presenze fatte di urla, di freddezza, di incoerenze, di abbandoni emotivi, di squalifiche. Madri e padri “presenti” ma emotivamente assenti, o peggio, disfunzionali (emotivamente immaturi).
Eppure, nella narrazione dominante, si continua a far passare l’idea che la presenza di un uomo e di una donna nella famiglia basti a garantire un ambiente sano. È una narrazione fuorviante, miope e anche pericolosa. L’identità di genere o l’orientamento sessuale delle figure adulte non sono indicatori della loro capacità di amare e proteggere. La competenza genitoriale si misura in altri modi. E l’amore, quello che educa, è sempre una scelta, mai un riflesso automatico del DNA.
Le famiglie omogenitoriali non sono un rischio: sono un’opportunità culturale
Le famiglie composte da due madri, da due padri, da persone queer, da adultə non binariə, rappresentano non solo un modello familiare valido, ma anche un’opportunità culturale di evoluzione. Permettono di smantellare i miti tossici legati ai ruoli fissi, promuovono una cultura dell’intenzionalità affettiva, decostruiscono l’idea secondo cui la maternità e la paternità siano destini naturali.
In queste famiglie, la genitorialità non è mai un “incidente”, non è mai qualcosa di dato, ma è sempre una scelta profonda e intenzionale. Non si è genitori per caso. Si è genitrici e genitori per vocazione, per desiderio, per progetto. Questo è già un primo elemento potentissimo di qualità relazionale.
Non c’è nulla di più dannoso, per chi cresce, che crescere dentro l’inconsapevolezza, la violenza normalizzata, l’amore condizionato o l’indifferenza. Non c’è nulla di più salvifico, invece, che crescere con persone che sanno chiedere scusa, che sanno ascoltare e che sanno mettersi in discussione.
Nessun sangue può più bastare
Insegnanti, educatrici, genitori, tutrici, zii, sorelle, fratelli maggiori, professioniste dell’educazione: ognuna e ognuno di noi, a un certo punto, può trovarsi ad assumere una funzione genitoriale. È il modo in cui si esercita questa funzione a determinare la differenza tra accompagnare e trascinare, tra accudire e manipolare, tra esserci e riempire uno spazio in modo autoritario.
Non serve essere genitrici biologiche per educare. Non serve essere genitori nel senso anagrafico per essere una presenza fondamentale nella vita di una persona in crescita. Serve la consapevolezza e la capacità di costruire una relazione educativa sana, fatta di ascolto, cura e responsabilità. Lontana dagli stereotipi di genere.
Questo è il nodo: non siamo chiamate e chiamati a garantire strutture familiari perfette, siamo chiamate e chiamati a garantire presenze autentiche, capaci di sostenere l’altra o l’altro e di sostenerci nella nostra stessa crescita. Perché la funzione genitoriale è una delle forme più alte dell’etica relazionale. E non si eredita. Si coltiva, consapevolmente. E magari – talvolta, soprattutto – decostruendo i propri modelli familiari acquisiti.