Riflessioni

La vulnerabilità non è una debolezza. È autenticità.

Viviamo in un’epoca in cui l’armatura sembra più utile del cuore. In una società che esalta la performance, la produttività e il controllo, mostrarsi vulnerabili è spesso visto come un errore strategico, come una crepa nell’immagine di efficienza che sentiamo di dover proiettare. Eppure, la vulnerabilità è una delle forze più rivoluzionarie e necessarie del nostro tempo.

Chi si occupa ogni giorno della crescita e della cura lo sa bene, anche se raramente la nomina. Perché la vulnerabilità non è solo un’esperienza interiore, ma un fatto culturale, un gesto che rompe il silenzio. È la materia grezza con cui si costruisce l’autenticità nei rapporti umani. E nei contesti educativi, familiari, scolastici, è l’unico terreno su cui può davvero germogliare una relazione significativa.

La paura di mostrarsi per ciò che si è

Ma perché abbiamo così paura della vulnerabilità? Il motivo non è solo psicologico: è sociale. Viviamo in contesti che ci spingono alla maschera, all’omologazione, alla prestazione. Chi si mostra fragile viene stigmatizzata o stigmatizzato, compatita, o peggio ancora ignorato. Il mito dell’autosufficienza ha radici profonde nella cultura occidentale. Si insegna presto a non piangere, a “tenere duro”, a non disturbare con il proprio dolore.

Nel mondo dell’educazione, questa dinamica si amplifica. Quante volte una madre o un padre si sentono in colpa se si mostrano stanche, stanchi o confusi davanti alle proprie figlie e ai propri figli? Quante e quanti insegnanti reprimono la propria emotività per paura di apparire “poco professionali”? Quante volte si finge, davanti a una persona adolescente in crisi, di avere tutte le risposte, quando invece ci si sente impotenti?

Questa paura nasce anche da un equivoco: pensare che la vulnerabilità sia sinonimo di debolezza, quando invece è l’esatto opposto.

Brené Brown e il coraggio della verità

La studiosa Brené Brown, autrice di testi su questo tema come  Daring Greatly, ha portato al centro del dibattito pubblico il valore trasformativo della vulnerabilità. Per Brown, “La vulnerabilità non è vincere o perdere; è avere il coraggio di mostrarsi e farsi vedere quando non si ha alcun controllo sull’esito”. Non qualcosa da evitare, ma un luogo da abitare. È il terreno su cui si fonda ogni relazione autentica, ogni atto creativo, ogni gesto di connessione profonda.

Mostrarsi per come si è – e non per come si dovrebbe essere – è un gesto radicale, perché mette in discussione le strutture del potere che ci vorrebbero uniformi, silenziose, prevedibili. È una presa di posizione contro la cultura della vergogna, del merito a tutti i costi, dell’ipercompetizione.

Nel campo educativo, portare vulnerabilità significa insegnare con l’esempio che la fragilità è parte dell’esperienza umana. Che sbagliare, avere paura, essere tristi non sono deviazioni dalla norma, ma dati legittimi del vivere. È un messaggio essenziale da trasmettere a chi cresce: non siete sole o soli, e non dovete essere perfetti per essere amati.

La vulnerabilità come strumento culturale

Parlare di vulnerabilità non è solo questione di autocoscienza. È fare cultura. È contribuire a cambiare la narrazione dominante che associa il valore personale alla prestazione, al ruolo, alla forza apparente.

La vulnerabilità diventa così una leva potente di trasformazione sociale. Quando una madre racconta senza vergogna la propria stanchezza. Quando un insegnante ammette di non sapere come gestire una crisi in classe. Quando una figura adulta dice a una persona giovane: “anche io ho avuto paura, anche io mi sono sentito perso”. In quei momenti, non si perde autorevolezza: la si conquista.

In una cultura che ha reso la vergogna un dispositivo di controllo, uscire dal silenzio è un gesto necessario. Parlare di dolore, di crepe, di lutto, di orientamento sessuale, di disagio psicologico significa togliere il potere al tabù e restituirlo alla vita. 

Vulnerabilità e infanzia: un’alleanza necessaria

Per chi cresce, la vulnerabilità è una condizione costante. I corpi cambiano, le emozioni esplodono, le sicurezze crollano. In questo terreno instabile, le adulte e gli adulti significativi dovrebbero essere punti fermi. Ma non nella forma di statue impassibili, bensì come esseri umani che mostrano la loro complessità. Che non temono di dire: “non lo so, ma ti ascolto”; “anche io ho paura, ma ci sono”.

Perché ogni volta che ci mostriamo vulnerabili con coraggio, insegniamo a chi ci guarda che anche loro possono farlo. Senza paura di essere giudicate e giudicati. Senza timore di non essere abbastanza.

Non sei debole. Sei viva. E questo è rivoluzionario

In un tempo che ci chiede sempre di essere funzionali, produttive, risolutivi, mostrare il proprio cuore è un atto di ribaltamento. Non c’è nulla di più potente di chi sa guardare negli occhi la propria ferita e ascoltare l’emozione che suscita.

E allora, la prossima volta che ti sentirai “troppo emotiva”, “troppo fragile”, “troppo sensibile”, ricordati: non sei troppo. Sei solo vera. E le persone vere sono quelle che cambiano il mondo. Una relazione alla volta. Mentre chi pronuncia queste frasi ha solo timore della vita, senza saperlo.