C’è una frase che spesso attraversa le infanzie e le adolescenze come una lama invisibile: “Sei troppo sensibile.” Un’affermazione apparentemente innocua, ma che si insinua come una condanna dentro chi la riceve, soprattutto se detta da una figura affettiva, genitoriale o educativa. Non è un semplice giudizio: è un’etichetta. Una forma sofisticata di silenziamento. Uno strumento del controllo che fa parte di un linguaggio tossico. Perché dire a qualcuno che è “troppo sensibile” significa screditare il suo sentire, ridicolizzarlo, minimizzare la sua esperienza del mondo.
Il peso culturale della sensibilità
In una società dove l’autonomia e la forza sono associate a modelli stereotipati di razionalità e durezza, la sensibilità viene spesso considerata una debolezza. Soprattutto quando è espressa da chi occupa una posizione considerata “inferiore” nella gerarchia familiare o sociale: bambine, ragazze, donne. Ma anche da quei bambini e uomini che non si conformano ai ruoli di genere imposti.
Nel contesto familiare patriarcale – ancora largamente dominante, seppur mascherato da una parvenza di modernità – l’espressione emotiva autentica viene scoraggiata, stigmatizzata o patologizzata. La sensibilità, dunque, non è solo un tratto della personalità, ma un atto di resistenza e autenticità.
Minimizazzione e colpevolizzazione: strumenti del controllo affettivo
Quando a una figlia si dice che esagera, che “non è successo niente”, che “sono cose che succedono”, si sta operando una forma sottile ma devastante di invalidazione emotiva. La realtà soggettiva viene negata. E la bambina – o il bambino – impara che non può fidarsi delle proprie emozioni, che la sua percezione non è affidabile.
Questo schema si riproduce nel tempo, diventando una matrice relazionale tossica. Chi cresce in ambienti in cui la propria sensibilità è ridicolizzata o ignorata rischia di interiorizzare un meccanismo di auto-svalutazione: si scusa, si giustifica, si colpevolizza.
È così che nasce una cultura dell’autocensura emotiva. Ed è così che si spegne lentamente la voce interiore.
Scenari complessi
Quando una ragazza, un ragazzo, una persona giovane prova a denunciare un abuso, una violenza, una molestia – verbale o fisica – e si sente rispondere “sei troppo sensibile”, non riceve solo un giudizio. Riceve un messaggio pericoloso: la sua esperienza non vale, che forse è lei o lui a esagerare.
Questo meccanismo prende un nome preciso: victim blaming. È la pratica – culturale, più che individuale – di spostare la responsabilità dell’abuso su chi lo subisce. E avviene ogni volta che si giudica una reazione emotiva invece di interrogarsi sulle cause che l’hanno generata.
Il risultato? Un isolamento affettivo e sociale profondo. Un senso di vergogna che non appartiene alla vittima, ma che viene cucito addosso come una seconda pelle.
Il problema non è sentire troppo. È non sentire affatto.
In una cultura affettiva sana, la sensibilità non è un problema da correggere. È un linguaggio da ascoltare. È una bussola per decifrare il mondo. Le persone sensibili – nel senso pieno e non riduttivo del termine – sono spesso quelle che colgono prima le ingiustizie, le dissonanze, i silenzi che fanno rumore. Sono coloro che sviluppano anticorpi contro la violenza simbolica e quella concreta.
Ecco perché, nel mondo dell’educazione, della scuola, della genitorialità, è essenziale iniziare a riconoscere – e decostruire – i linguaggi tossici che normalizzano la svalutazione emotiva.
Dire a una bambina che “è troppo sensibile” può sembrare un modo per aiutarla a “rafforzarsi”. Ma, nella realtà, può trasformarsi in un atto di silenziosa violenza. Una frattura invisibile nella sua fiducia nel mondo e in se stessa.
Educare all’empatia è un atto culturale
La scuola, la famiglia, la comunità sono i primi luoghi in cui si costruisce il linguaggio con cui chi cresce imparerà a leggere e raccontare se stessa o se stesso. Se il linguaggio è giudicante, svalutante o colpevolizzante, allora si creerà una generazione di persone che mettono in discussione il proprio sentire.
Se invece il linguaggio è accogliente, curioso, capace di dare dignità alla complessità emotiva, allora nasceranno persone adulte capaci di empatia, di ascolto autentico, di relazione profonda.
Perché la vera forza non sta nel reprimere ciò che sentiamo, ma nel riuscire a nominarlo, viverlo, trasformarlo.
E alla fine ti convincono pure
Che sei tu a esagerare. Che forse davvero “l’hai presa troppo sul personale”. Che se tuo padre alza la voce è solo perché “ha un brutto carattere”. Che se tua madre tace è per “non creare problemi”. Che se quell’uomo ti ha toccata è colpa tua o “magari ti sei fatta un film”.
Ti convincono che essere sensibili è sbagliato, che i tuoi occhi vedono troppo, che il tuo cuore sente troppo. Che devi adattarti. Che devi diventare un’altra.
E invece no. Questa è proprio la cultura da cui dobbiamo imparare a liberarci.