ADHD, ansia, depressione: tutto quello che le precedenti generazioni hanno ignorato e che oggi dobbiamo (ri)conoscere.
«Ai miei tempi mica c’erano queste malattie inventate»: una frase che riecheggia sui social, nei pranzi di famiglia. Una di quelle sentenze che condensano in poche parole un universo di rimozione, rifiuto e diffidenza verso tutto ciò che riguarda la salute mentale e il mondo interiore delle bambine, dei bambini e degli adolescenti. Ma soprattutto, è una frase che racconta molto più dei loro tempi che del nostro.
Chi la pronuncia, spesso appartiene alla generazione cresciuta nel mito dell’autosufficienza, del “tirarsi su le maniche”, del dolore come forza educativa. Le precedenti generazioni, figlie di un’Italia che usciva dal boom economico e si avviava verso il culto della produttività, ha interiorizzato una narrazione in cui il malessere era un lusso, un capriccio o, nella migliore delle ipotesi, una debolezza da nascondere. Ma il prezzo lo stiamo pagando ora, tutte e tutti.
La cultura dell’invisibile
Questa negazione ha radici profonde: nelle famiglie, nelle scuole, nella medicina, nei media. L’idea che mente e corpo fossero due entità separate (da Cartesio) ha alimentato per decenni l’invisibilità del disagio psicologico. Se non si vede, non esiste. Se non si piange, non fa male. Se non urli, allora stai bene. E così, il dolore interiore è stato normalizzato, interiorizzato, taciuto.
La verità è che molte delle condizioni che oggi chiamiamo con il loro nome – disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), ansia, depressione, disturbi del comportamento alimentare – esistevano anche “ai loro tempi”. Solo che non avevano parole per dirlo. O forse, nessuno le voleva ascoltare.
L’infanzia negata
Quante bambine sono state bollate come “difficili”, “capricciose”, “troppo vivaci”? Quanti bambini considerati “agitati”, “inadeguati”, “problematici”? Non erano altro che persone inchiodate in un sistema educativo e familiare che leggeva il sintomo come disobbedienza, il disagio come colpa, la vulnerabilità come difetto.
Oggi, lo sappiamo: quei comportamenti potevano essere espressioni di un disturbo non diagnosticato, di un ambiente familiare disfunzionale, di un trauma mai elaborato. Ma la diagnosi non era solo assente: era rifiutata, temuta, stigmatizzata.
Il trauma ereditato (e perpetuato)
Le precedenti generazioni hanno spesso portato dentro di sé un carico di dolore mai nominato. Lo hanno tramandato, spesso inconsapevolmente, alle generazioni successive. Ecco perché oggi, molte madri e molti padri – ad esempio della Generazione X – si ritrovano spiazzati davanti a figlie e figli che parlano apertamente di ansia, che chiedono supporto psicologico, che pretendono uno spazio emotivo in cui essere riconosciuti. Li guardano con sospetto, a volte con fastidio, altre con invidia. Perché loro, quello spazio, non l’hanno mai avuto. Nessuno gliel’ha concesso.
Il problema non è il disturbo in sé, ma la cultura che nega, che deride, che banalizza il disagio. È una cultura che ha paura della complessità e che non sa stare nel dubbio. Ma è proprio nel riconoscimento di quella complessità che si gioca la possibilità di una trasformazione sociale.
Oggi: il dovere di riconoscere, non solo di sapere
Oggi disponiamo di strumenti diagnostici più raffinati, di studi scientifici che ci spiegano cosa accade nel cervello, di linguaggi condivisi che permettono di nominare il dolore. Ma non basta sapere. Bisogna riconoscere. Riconoscere significa accettare che la cultura da cui veniamo ha fallito nel proteggere l’infanzia. Significa avere il coraggio di rivedere la propria idea di educazione, di famiglia. Significa, soprattutto, ascoltare davvero.
Per questo non basta introdurre l’educazione emotiva a scuola se poi a casa vige il silenzio. Non basta portare a teatro uno spettacolo sull’ansia adolescenziale se poi si dice a una figlia o a un figlio “è solo una fase”. Non basta fare formazione se la cultura dominante è ancora impregnata di patriarcato, performance e negazione.
Il paradosso dell’iperdiagnosi
Una delle accuse più frequenti oggi è che ci sia una “epidemia” di diagnosi. Che si diagnostichi troppo e troppo in fretta. Ma forse il punto non è il numero delle diagnosi, quanto la rimozione storica che le ha precedute. Forse stiamo semplicemente facendo emergere tutto ciò che è stato sommerso. Stiamo ascoltando quello che prima veniva zittito. E, in fondo, stiamo restituendo umanità a chi è stato disumanizzato nel nome del decoro, della disciplina, della normalità.
Questo è il tempo in cui ci si interroga, ci si guarda dentro, si accetta che anche la fragilità ha diritto di esistere. Anche se scomoda, anche se impopolare.
Perché la vera epidemia, probabilmente, è stata quella del silenzio.