Cultura psicologica

“Due schiaffi non hanno mai fatto male a nessuno”: decostruzione di un mito tossico

Quante volte abbiamo sentito dire: “Due schiaffi non hanno mai fatto male a nessuno”. Una frase lapidaria, tramandata da generazioni, diventata quasi un motto per diverse generazioni , soprattutto quelle cresciute tra i ’60 e gli ’80, in famiglie dove l’autorevolezza si imponeva più con la paura che con la comprensione. Ma è davvero così? È possibile che un atto punitivo, seppur “leggero”, non lasci traccia?

La verità, che oggi molte persone – soprattutto millennial – hanno il coraggio di guardare in faccia, è che quei due schiaffi hanno fatto male eccome. E spesso non solo al corpo, ma in modo più subdolo e permanente alla psiche. E questo lo dicono i numerosi studi scientifici: l’educazione punitiva è un’eredità da disinnescare.

L’educazione punitiva ha plasmato intere generazioni. Un’educazione fatta di urla, punizioni, minacce e, talvolta, violenze vere e proprie. Il tutto giustificato dall’idea che servisse “a crescere bene”. Una pedagogia dell’intimidazione, dove il rispetto veniva confuso con la paura.

Molte donne e molti uomini adulti oggi vivono con un retrogusto di emozioni contrastanti  nel ricordare la propria infanzia. Una sensazione di allerta cronica, la difficoltà a stabilire confini sani, una faticosa relazione con l’autorità. E non è un caso che le stesse persone facciano fatica ad affidarsi a una o a un terapeuta, a nominare il dolore, a riconoscere i traumi. Perché sono cresciute con un messaggio chiaro: “non esagerare”, “non piangere”, “non si parla di quello che succede a casa”. Il silenzio come strumento educativo.

“Noi non ci siamo mai lamentati”. Ed è proprio questo il problema.

L’affermazione tipica di chi ha ricevuto questo tipo di educazione è “a noi non è mai successo niente”. E, in realtà, è l’indizio più forte di quanto la repressione emotiva abbia funzionato. In una famiglia patriarcale e coercitiva, parlare era pericoloso, sentire era scomodo, dissentire era un crimine.

Questa repressione ha prodotto generazioni apparentemente funzionanti ma interiormente fratturate. Persone che lavorano, crescono figlie e figli, hanno relazioni, ma che sotto la superficie convivono con ansia, somatizzazioni, dipendenze affettive, sindromi da burnout, attacchi di panico.

Non sono “deboli” le figlie e i figli di oggi. Sono solo più consapevoli. Hanno imparato, spesso con grande fatica, a dare un nome al dolore. E a cercare risposte, anche nella terapia.

Millennial: la generazione della guarigione

Le persone millenial cresciute a cavallo tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo millennio, sono forse la prima generazione a interrogarsi pubblicamente sul proprio passato. Hanno (abbiamo) smesso di credere che “tutto si risolve con la forza di volontà”. Hanno iniziato a frequentare psicologhe, terapeuti, professioniste e professionisti della salute mentale.  Hanno letto libri, ascoltato podcast, parlato di traumi sui social e con le proprie persone.

E questo non li ha indebolite e indeboliti. Anzi. Li ha rese e resi più forti. Perché il coraggio non sta nel resistere in silenzio, ma nel mettersi in discussione. Nel riconoscere il male ricevuto per evitare di trasmetterlo alle nostre bambine e ai nostri bambini.

L’ambiente sicuro non è un’utopia

Crescere in un ambiente sicuro non significa crescere in un ambiente permissivo. Significa crescere in un ambiente dove la relazione educativa è basata sul rispetto, sulla coerenza, sulla presenza emotiva. Dove l’errore è occasione di crescita, non pretesto per umiliare. Dove il pianto non è un ricatto, ma un messaggio.

Una bambina e un bambino cresciuti nella paura diventeranno persone adulte che faranno fatica a fidarsi. Una bambina e un bambino cresciuti nella vergogna saranno persone adulte che reprime i propri bisogni. Una bambina e un bambino che non si sono mai sentiti al sicuro diventeranno persone adulte che confonderanno amore e controllo.

Genitori ed educatori: il potere di interrompere la catena

Chi oggi ha il compito di educare ha anche il potere – e la responsabilità – di interrompere questa catena generazionale. Questo significa guardare con occhi nuovi la propria storia, anche quella più dolorosa. Significa chiedersi: “Quel che ho subito da piccola o da piccolo, lo vorrei per la mia bambina? Per il mio bambino?”

Significa scegliere l’ascolto invece del comando, la connessione invece della punizione. Significa informarsi, leggere, confrontarsi, non smettere mai di imparare.

La disobbedienza come atto d’amore

Rifiutare l’educazione punitiva non è un atto di debolezza. È un atto rivoluzionario. È dire “basta” a una cultura che ha confuso disciplina con violenza, autorevolezza con autorità, educazione con addestramento.

È un modo per dire: io non farò quello che è stato fatto a me. È un modo per proteggere le nostre bambine e i nostri bambini. Ma anche per iniziare, finalmente, a proteggere noi stesse e noi stessi.