Cultura psicologica Riflessioni

È corretto parlare di ragazze e ragazzi fragili se la forza si misura nella capacità di sentirsi?

“Le ragazze e i ragazzi di oggi sono fragili.”
Lo sentiamo dire continuamente. È un refrain che attraversa le chiacchiere delle genitrici e dei genitori all’uscita di scuola, le discussioni sui social, le aule delle e degli insegnanti, persino le pagine dei giornali. Ma cosa significa davvero fragilità? E soprattutto: siamo certe e certi che sia un problema delle e degli adolescenti, o piuttosto dello sguardo delle persone adulte che fatica a tollerare la vulnerabilità?

Viviamo in una società che ha costruito buona parte del proprio impianto educativo e culturale sull’idea di forza come negazione del sentire. Il dolore va nascosto, la rabbia contenuta, la tristezza anestetizzata. Mostrare emozioni – soprattutto se non sono gioiose – viene ancora spesso letto come un cedimento, un fallimento della persona. Ma davvero possiamo continuare a pensare che una madre che non ammette mai la propria stanchezza o un padre che grida per imporsi siano esempi di solidità emotiva?

La fragilità non è una colpa. È una condizione umana

Dare un nome alla fragilità non la crea: semplicemente, la porta alla luce. La libera. Le giovani generazioni non sono più fragili: forse, sono solo più libere – o almeno, cercano di esserlo – nel raccontare le proprie ombre. Ed è questo che spesso infastidisce il mondo adulto: lo specchio che obbliga a guardarsi dentro, a fare i conti con un proprio sentire mai elaborato.

Quella che chiamiamo “fragilità” è spesso solo la capacità di contattare, riconoscere e dare forma alle emozioni. Un’abilità che moltissime persone adulte non possiedono. Quando una figlia o un figlio mostra la propria ansia, la propria confusione, il proprio dolore, mette di fronte un genitore alla propria incapacità di ascoltare, di accogliere, di rispondere senza giudizio. Per questo dà fastidio. Perché obbliga a confrontarsi con una parte di sé rimossa, non sviluppata. Fa da specchio. E il riflesso non sempre è piacevole.

La reazione più comune?

Minimizzare. Svalutare. Definire come “capriccio” ciò che è disagio, come “debolezza” ciò che è apertura. Ma la verità è che spesso il mondo adulto è composto da persone emotivamente immature. Adulte nel corpo, ma ancora infantili nel modo di gestire il conflitto, la paura, il dolore. Incapaci di restare in ascolto senza sentirsi minacciate.

E non sorprende che molte di queste persone diffidino profondamente dalla psicoterapia. La rifiutano, la denigrano, la deridono. Perché temono quello che potrebbero trovare dentro di sé. Perché hanno paura di scoprire quanto poco sanno della propria interiorità. Perché nessuno le ha mai accompagnate a conoscersi e l’idea di cominciare – magari a cinquant’anni – fa paura. Ma la paura non giustifica la rigidità.

Le nuove generazioni, al contrario, spesso si avvicinano alla terapia con curiosità, con coraggio. Nonostante lo stigma, nonostante la diffidenza sociale ancora presente. Perché sentono il bisogno di conoscersi, di esplorarsi, di trovare una narrazione che dia senso al proprio vissuto. E questa apertura è tutt’altro che fragilità: è competenza emotiva. È costruzione di forza, non sua negazione.

Genitori e adulti emotivamente immaturi

È comodo parlare della fragilità altrui quando non si è mai imparato a gestire la propria. Molte madri e molti padri – cresciuti in ambienti in cui l’emotività era un disvalore – hanno sviluppato una relazione difensiva con le emozioni: si nega la rabbia (se si è donne, altrimenti se si è uomini è accettata) si rimuove la tristezza, si anestetizza il dolore. E questa assenza di contatto con la propria interiorità genera un vuoto che viene proiettato sui figli e sulle figlie.

Un padre che si arrabbia per ogni piccola contrarietà, che alza la voce per “farsi rispettare”, non è un uomo forte: è un uomo spaventato dalle proprie emozioni, che non ha mai imparato a stare con esse. Una madre che non nomina mai la malinconia o il disagio, che finge che tutto vada bene per “non pesare” sulle proprie figlie e i suoi propri figli, non li sta proteggendo: li sta educando a validare solo una parte del proprio sentire, quello piacevole.

La vera forza? Guardarsi dentro

In una cultura che premia l’efficienza e la performance, il coraggio più grande oggi è quello di sentirsi. Di nominare il disagio, di dare dignità alla propria vulnerabilità. Le nuove generazioni ci stanno provando, spesso in solitudine, spesso senza strumenti. E quello di cui avrebbero bisogno non è il giudizio delle persone adulte, ma la loro presenza. Una presenza autentica, imperfetta, capace di ascoltare.

Parlare di fragilità è un atto culturale oltre che psicologico. Significa rompere un tabù che ha radici antiche e che attraversa le famiglie, le scuole, i luoghi di lavoro. Significa ammettere che tutte e tutti, in quanto esseri umani, siamo fragili. Che la forza non è negare questa verità, ma saperla abitare con dignità.

Chi ha creato il terreno?

È importante ricordarlo: le giovani generazioni non crescono nel vuoto. Crescono dentro sistemi. Sistemi familiari, scolastici, sociali, digitali. E se oggi alcune e alcuni adolescenti crollano, è perché il terreno sotto i loro piedi è instabile. Perché troppe genitrici e genitori non hanno mai fatto un percorso di consapevolezza emotiva. Perché troppe e troppi insegnanti non sono stati formati per accogliere la complessità del sentire. Perché il mondo adulto, nella sua narrazione di forza, ha costruito un terreno precario.

Chi non ha saputo creare un contesto sicuro, chi ha negato per anni l’esistenza delle emozioni, chi ha confuso la disciplina con il controllo, oggi non può ergersi a giudice di ciò che è fragile e ciò che non lo è.

E se smettessimo di chiedere alle ragazze e ai ragazzi di essere forti?

Iniziamo a chiederci che cosa significa per noi persone adulte, oggi, essere forti. Se significa dominare, avere risposte pronte, mantenere il controllo, allora forse abbiamo bisogno di reimparare. Se invece significa attraversare le proprie emozioni, chiedere aiuto, riconoscere le ferite e iniziare a prendersene cura, allora forse possiamo diventare davvero persone di riferimento.

E se fossero le nuove generazioni a insegnarci che la vera forza è imparare a stare nella fragilità?