Cultura psicologica

“La psicoterapia? Serve ai deboli.” Le frasi di chi teme la propria vulnerabilità.

Stigma, paura e cultura: perché la psicoterapia fa ancora così paura?

C’è un’espressione che continua a serpeggiare, sottile e insidiosa, tra le pieghe della nostra cultura: “La psicoterapia? Serve ai deboli.” Frase che fa da eco a una convinzione antica, radicata in un’idea tossica di forza e autosufficienza. Una convinzione che colpisce ancora oggi con forza, soprattutto tra chi educa, cresce e si prende cura di bambine, bambini e adolescenti.

In un tempo in cui si parla molto – e spesso in modo superficiale – di salute mentale, la cultura della psicoterapia in Italia resta ancora circondata da pregiudizi, confusione e stereotipi. Prima di tutto, molte persone non conoscono la differenza tra psicologo e psicoterapeuta — una differenza che merita uno spazio dedicato e che approfondirò in un altro articolo.

Chi sceglie di intraprendere un percorso psicoterapeutico viene spesso etichettata o etichettato come fragile, incapace, “con problemi”. Ma da dove nasce questa diffidenza? Perché, ancora oggi, molte persone sono spaventate da chi potrebbe essere d’aiuto?

Una cultura della maschera

L’Italia è un paese che ha coltivato per secoli l’arte della rappresentazione. Dalla commedia dell’arte ai modelli educativi basati sul “non far sapere”, ci siamo nutrite e nutriti di apparenza più che di autenticità. Mostrare il dolore, dichiarare una ferita, è stato spesso considerato un gesto indecoroso, qualcosa che si fa solo nel segreto — se proprio necessario.

L’educazione cattolica, la cultura patriarcale e la retorica della “sopportazione silenziosa” hanno costruito nel tempo un ideale di forza che si misura nella capacità di resistere, non di chiedere aiuto. Questo si riflette anche nell’infanzia: quante volte sentiamo dire “è solo una fase”, “passerà da solo”, “è solo un po’ sensibile”? I segnali di disagio emotivo di una figlia, un figlio vengono spesso minimizzati, se non ignorati.

La salute mentale è salute. Punto.

C’è un aspetto fondamentale che viene costantemente ignorato nel dibattito pubblico: la salute mentale è salute. Come una gamba rotta, una bronchite o un tumore. Ma nessuno si sognerebbe di dire a una persona con il diabete: “Fatti forza, guarirai con la volontà”. Nessuno consiglierebbe a una persona con una polmonite di “andare a farsi una passeggiata”. Eppure, quando si tratta di depressione, ansia, attacchi di panico, disturbi del comportamento, l’approccio è ancora quello del “vedrai che passa”. O peggio: “non ti manca niente”.

L’assurdità è che, per una qualsiasi malattia fisica, le persone si attivano subito. Si prendono permessi, fanno visite, seguono terapie. Ma di fronte alla mente che si spezza, alla psiche che scricchiola, si alza un muro. Si tace. Si nega. Si finge normalità. Questo perché ancora oggi il dolore mentale è vissuto come una colpa personale, come un fallimento.

Il terrore di sentirsi vulnerabili

Una delle paure più grandi legate alla psicoterapia è quella di essere guardate e guardati per davvero e sentirsi vulnerabili. In un mondo che ci insegna a mascherarci, a performare, a compiacere, l’idea di incontrare qualcuno – una o un professionista – che possa vedere ciò che cerchiamo di nascondere è destabilizzante. Non è la debolezza che fa paura, ma lo svelamento e l’eventuale perdita del controllo.

La psicoterapia non è un interrogatorio né una seduta spiritica. È uno spazio di ascolto strutturato, sicuro, guidato da una professionista o un professionista preparato a sostenere, decodificare, contenere e trasformare. Ma questa possibilità — quella di essere finalmente accolte e accolti, anche nelle nostre zone d’ombra — mette a nudo un sistema sociale che ci ha abituate e abituati a fare il contrario. A contenere, a reprimere, a fingere.

Ecco perché, spesso, ci si rivolge alla psicoterapia solo quando il disagio è diventato ingestibile. Non appena si ha un attacco di panico, una crisi nel rapporto con le proprie figlie o con i propri figli, un’esplosione emotiva ingestibile. Solo allora il “permesso” viene concesso. Ma troppo spesso è già tardi per la prevenzione, per l’ascolto profondo, per educare al sentire.

Le persone che “fanno muro” sono spesso le più fragili

Chi si oppone con più forza all’idea di fare psicoterapia — chi ridicolizza, nega, attacca — è spesso chi ne avrebbe più bisogno. Non per giudizio, ma per osservazione. È chi ha imparato fin da bambina o da bambino che mostrare una crepa equivale a perdere valore. È chi ha interiorizzato un modello educativo punitivo, in cui le emozioni erano debolezze da estirpare, non segnali da ascoltare.

E così, nel tempo, queste persone diventano inscalfibili in superficie, ma profondamente fragili dentro. Reprimere le emozioni non le elimina: le cristallizza. E quando la vita chiede elasticità emotiva — un lutto, una crisi, un fallimento — quella corazza si frantuma. Spesso con esiti devastanti, anche per chi sta loro vicino.

C’è una frase che dice: “I muri che costruisci per tenere fuori il dolore sono gli stessi che impediscono alla gioia di entrare.”
Chi fa muro non protegge se stessa o se stesso: si isola. E si priva della possibilità di una vita più piena, più consapevole, più libera.

Il mito dell’autosufficienza

Nella nostra cultura, c’è un culto radicato dell’autonomia. “Devi farcela da solo”, “se non ti tiri su da solo non vali”. Un messaggio che penetra nel modo in cui cresciamo, nel modo in cui insegniamo, nel modo in cui lavoriamo. Chi chiede aiuto viene percepitə come carente. La cura viene vista come una pezza, non come un diritto.

Ma la salute mentale non è un premio per chi ce la fa. È un bisogno umano. E proprio chi cresce al fianco di giovani vite — figlie, figli — ha il dovere di educare alla complessità dell’emotività. Per farlo, deve prima concedersi la possibilità (che poi è un diritto) di esplorare la propria.

Siamo tutte e tutti vulnerabili

Il mito che la psicoterapia serva ai deboli si regge su una narrazione fallace: quella che esistano persone forti e persone fragili. In realtà siamo tutte e tutti vulnerabili. La differenza è che alcune persone hanno avuto accesso a strumenti per nominare le emozioni, altre hanno imparato a nasconderle.

La sofferenza psicologica non è un’eccezione, è una parte costitutiva dell’esperienza umana. Le emozioni non trattate non scompaiono: si annidano, si somatizzano, esplodono altrove. A volte nei comportamenti delle persone più giovani che ci chiedono, con i loro silenzi o le loro “crisi” (quelle che noi chiamiamo crisi), di cambiare sguardo.

Cultura psicologica significa anche libertà

Parlare di cultura psicologica significa parlare di libertà: la libertà di dismettere la maschera, la libertà di dire “sto male”, la libertà di interrompere i cicli di violenza emotiva e relazionale che spesso si tramandano nelle famiglie e nelle scuole. Significa anche risignificare la figura della psicoterapeuta, dello psicoterapeuta: non come “correttore” di patologie, ma come accompagnatrice o accompagnatore nell’esplorazione di sé.

C’è bisogno di una nuova narrazione che liberi la psicoterapia dal tabù e dall’eccezionalità. Che la porti nei corridoi delle scuole, nelle case, nei consultori, nelle aziende. Che faccia della vulnerabilità un terreno fertile e non una vergogna da nascondere.

E se la vera debolezza fosse non volersi guardare dentro?