Ci sono voci che si alzano, fragili e potenti insieme, eppure restano inascoltate. Voci che raccontano storie scomode, che si insinuano nei meccanismi sociali e ne rivelano le crepe più profonde. Sono le voci delle bambine e dei bambini che subiscono violenza e trovano il coraggio di parlare, solo per scontrarsi con il muro dell’indifferenza, del dubbio, della minimizzazione.
Quando una bambina o un bambino denuncia un abuso, non sempre la risposta delle persone adulte è pronta a intervenire. Con una creatura ancora dipendente dagli altri, la risposta è quasi sempre il silenzio o, peggio, l’inversione della colpa. Si insinua il sospetto che esageri, che confonda la realtà con l’immaginazione, che stia cercando attenzioni.
Ma perché accade? Perché una società che si dice attenta alla tutela dell’infanzia si rifiuta così spesso di credere a chi denuncia la violenza?
La fragilità delle persone
L’idea che l’abuso possa insinuarsi dentro i luoghi considerati sicuri – la casa, la scuola, la cerchia familiare – è insopportabile. Riconoscere che il male esista anche lì significa ammettere che il pericolo non viene sempre da fuori, da estranei oscuri e facilmente demonizzabili, ma da persone insospettabili, stimate.
Chi ascolta un racconto di violenza ha due scelte: accettarne il peso e intervenire, oppure voltarsi dall’altra parte. Molti scelgono la seconda strada. Non per malvagità, ma per autodifesa. La mente adulta si aggrappa alla negazione per non dover affrontare la frattura che l’abuso porta con sé. Si protegge dietro frasi come: “Sarà un’incomprensione”, “È impossibile”, “Di sicuro sta inventando”.
Dubitare di chi parla è il modo più semplice per non assumersi la responsabilità di agire. E così, chi ha subito un trauma viene lasciato solo nel compito più difficile: dimostrare di non mentire.
L’abuso è un’ombra che si insinua nelle crepe del sistema
La violenza contro i più giovani non è un incidente, ma il sintomo di una struttura sociale che ancora fatica a riconoscerne i diritti come inviolabili. Per secoli, le persone hanno considerato chi era piccolo e indifeso non come un soggetto autonomo, ma come una proprietà della famiglia, una proiezione degli adulti attorno a lui o lei.
Questo retaggio sopravvive nelle istituzioni. Chi riceve denunce di abuso spesso le accoglie con scetticismo perché si scontra con un meccanismo che, storicamente, ha dato più peso alla parola dell’adulto rispetto a quella di chi non ha potere. Si pensa che chi è in crescita non sia in grado di comprendere fino in fondo quello che gli è accaduto, che possa fraintendere, che sia suggestionabile.
Eppure, la psicologia ha dimostrato che chi ha subito un abuso difficilmente inventa. I racconti possono essere frammentari, confusi dall’angoscia o dalla paura, ma il cuore della testimonianza è quasi sempre autentico. Il problema è che spesso chi ascolta non vuole realmente ascoltare.
Il ruolo delle famiglie e delle istituzioni
La maggior parte delle violenze avviene all’interno delle mura domestiche (parliamo del 90% delle violenze). Per questo, quando una bambina o un bambino denuncia, spesso incontra la resistenza di chi dovrebbe proteggerlo. Si teme lo scandalo, si preferisce il dubbio al caos che una rivelazione del genere potrebbe portare.
Le scuole, gli ospedali, i servizi sociali hanno il compito di fare da argine a questa omertà. Ma il sistema non è sempre pronto. Il personale scolastico non sempre sa riconoscere i segnali del malessere. Gli operatori sociali sono oberati di casi e privi di strumenti adeguati. Le forze dell’ordine, in troppi casi, non ricevono la formazione necessaria per trattare con delicatezza e precisione le denunce di minori.
E così la macchina si inceppa. Gli abusi continuano e chi cerca giustizia si scontra con il sospetto, con l’attesa, con la burocrazia.
Il linguaggio della minimizzazione
Le parole creano la realtà (non smetterò mai di dirlo), e il modo in cui la società parla della violenza racconta molto di quanto sia davvero pronta ad affrontarla.
Si parla di “rapporti inappropriati” invece che di abusi. Si definisce una denuncia “accuse pesanti”, spostando l’attenzione dal dolore di chi l’ha subita al disagio di chi viene accusato. Si dice “sono cose che succedono” quando una vittima si ritrova isolata e senza protezione.
Questa narrazione protegge chi fa del male e rende ancora più difficile per chi lo subisce trovare credibilità.
Cosa resta a chi parla e non viene creduto?
A chi viene messo in dubbio non resta che il silenzio o la lotta. Alcuni scelgono di non parlare mai più. Chi insiste deve combattere contro il sistema, contro il sospetto, contro il pregiudizio.
Eppure, chi ha vissuto un abuso e trova il coraggio di raccontarlo compie un atto potentissimo. Perché ogni parola spezza un pezzo della catena che tiene in piedi l’omertà. Ogni voce che si leva crea una crepa nel muro della negazione.
Se nessuno vuole ascoltare, la responsabilità è di chi non vuole sentire. Non di chi trova il coraggio di parlare.