Parlare di “cultura dello stupro” è fondamentale. Significa nominare un fenomeno che esiste, si manifesta in mille forme e riguarda tutte e tutti noi. È un sistema culturale, sociale e linguistico che normalizza, minimizza e, a volte, giustifica la violenza sessuale e quella di genere. Lo fa in modo così sottile, così quotidiano, da passare spesso inosservato, persino tra chi ha a cuore l’educazione affettiva, la giustizia e il rispetto per tutte le persone.
La cultura dello stupro non riguarda soltanto l’atto di violenza sessuale in sé, ma tutto ciò che lo rende possibile: lo sguardo che sessualizza i corpi minorenni, il silenzio complice, l’educazione sentimentale inesistente, l’incredulità di fronte a una denuncia, la colpevolizzazione di chi subisce, i media che indulgono nei dettagli morbosi, il linguaggio che trasforma l’aggressione in un “rapporto finito male”.
Questa cultura esiste e si trasmette. A scuola, nei media, nelle famiglie, nella letteratura, nei tribunali. Per questo è fondamentale che genitrici, genitori, insegnanti e tutte le persone che hanno un ruolo nella crescita si fermino a guardarla negli occhi. E a decostruirla.
Dove nasce: un sistema più che un evento
L’espressione “rape culture” nasce nei movimenti femministi anglosassoni degli anni ’70. Ma è molto più antica: affonda le radici in una narrazione patriarcale millenaria che ha costruito un’idea gerarchica dei corpi, del piacere e del potere. È quella stessa narrazione che ha giustificato, legittimato o ignorato stupri di guerra, abusi domestici, violenze correttive su persone LGBTQIA+, molestie in ambito scolastico o sportivo.
La cultura dello stupro si regge su pilastri riconoscibili: l’idea che chi subisce “se l’è cercata”, la negazione del consenso come elemento centrale, l’impunità diffusa per chi agisce violenza, la spettacolarizzazione della vittima. E soprattutto, l’assenza totale di un’educazione al consenso e all’empatia nelle prime fasi della crescita.
Perché riguarda l’infanzia e l’adolescenza
Parlarne fin da piccoli e piccole non è affatto prematuro. È salvifico. I messaggi che interiorizziamo da giovani diventano strutture cognitive, morali e affettive. Se un maschio impara che “insistere” è segno di virilità e una femmina che “deve cedere” per non sembrare “frigida” o “presuntuosa”, il danno è fatto. Se un’insegnante ride per una battuta sessista o se in famiglia si colpevolizza chi denuncia una molestia, quel messaggio si sedimenta.
Serve uno sguardo attento, non moralista. Serve fare luce su contenuti mediali, libri di testo, dinamiche di gruppo, linguaggi apparentemente innocui. Serve nominare il corpo, il desiderio, il consenso, la rabbia, la paura. Serve un linguaggio che non censuri, ma che renda libere e liberi.
Cultura dello stupro e persone LGBTQIA+
Chi cresce fuori dai binari dell’eteronormatività è spesso doppiamente vulnerabile. La cultura dello stupro, infatti, è profondamente connessa con l’omofobia, la transfobia e tutte le forme di discriminazione verso chi non aderisce ai modelli dominanti.
Le aggressioni “correttive”, le molestie nei confronti di adolescenti non conformi, l’invisibilizzazione della violenza nelle relazioni LGBTQIA+, sono manifestazioni diverse della stessa matrice culturale. Una matrice che considera alcuni corpi meno degni di rispetto, alcuni desideri meno legittimi, alcune identità più colpevoli.
Contrastare questa cultura significa allora anche parlare apertamente di sessualità, affetti, orientamento e identità di genere, con coraggio e competenza.
Cosa possiamo fare, ogni giorno
Parlare. Decostruire. Leggere. Ascoltare. Comprendere. Scegliere parole più consapevoli. Intervenire quando sentiamo una battuta sessista. Riconoscere il privilegio. Non girarsi dall’altra parte. Offrire strumenti. Non rimanere in silenzio. Usare il proprio ruolo per educare, proteggere, trasformare.
Serve una nuova grammatica delle relazioni. Una cultura della cura. Un’educazione sentimentale che sia profonda, incarnata, fondata sul rispetto e sulla libertà. Serve imparare a chiedere: ti va? Ti senti a tuo agio? Servono risposte oneste. Serve che nessuna e nessuno si senta obbligato a sorridere quando ha paura.
Serve una rivoluzione della tenerezza. Ma una tenerezza senza ingenuità.
Il patriarcato ha sempre un alibi. Non darglielo anche tu.
Questo articolo non sostituisce il supporto di una o di un professionista della salute mentale, ma vuole offrire spunti di riflessione e sensibilizzazione su un tema di grande importanza sociale. Se sospetti che una bambina, un bambino o una persona adulta siano vittime di violenza o se tu stessa o tu stesso stai vivendo una situazione di abuso, chiedi aiuto a professionisti, centri antiviolenza o servizi di supporto specializzati. Parlare è il primo passo per spezzare il silenzio e trovare una via d’uscita.