In Italia, quando una coppia di donne lesbiche decide di diventare genitrici, si trova di fronte a un percorso completamente diverso – più lungo, più complesso, più costoso – rispetto a quello previsto per una coppia eterosessuale. Una scelta legittima, consapevole e profondamente voluta, che però si scontra con un sistema normativo e culturale che continua a ignorare, a ostacolare, a rendere invisibile una realtà. Diventare genitrici, in questo contesto, diventa un atto di autodeterminazione e una dichiarazione di esistenza.
Non esiste un percorso standardizzato, nessuna corsia preferenziale, nessun supporto reale. Ma esistono donne che questo percorso lo affrontano con orgoglio, lucidità e coraggio. Esistono famiglie che decidono consapevolmente di affrontare ostacoli enormi per affermare un diritto tanto semplice quanto rivoluzionario: quello di costruire una famiglia.
Dove lo Stato tace, l’amore agisce
Una coppia eterosessuale che si avvicina a un percorso di procreazione medicalmente assistita (PMA) non deve dimostrare nulla: né l’idoneità a fare i genitori, né l’origine degli ovociti o degli spermatozoi, né il consenso del partner. Per una coppia lesbica, invece, ogni passo è una lotta. L’Italia vieta, alle coppie di donne lesbiche – e alle donne single – l’accesso alla PMA, costringendole a recarsi all’estero, sostenendo viaggi lunghi, costi elevati e una complessa gestione di logistica, lavoro e vita quotidiana.
Trovare una clinica, organizzare gli spostamenti, sottoporsi a esami e terapie, reperire farmaci che appartengono a un canale ospedaliero – quindi difficilmente reperibili – pagarli a caro prezzo: tutto questo è parte del “pacchetto base”. Eppure, lo si affronta con determinazione. Perché quando scegli di diventare madre, non c’è ostacolo che tenga.
Genitrici, sì. Ma solo una per lo Stato
E se l’amore ha due nomi, la legge italiana ne riconosce solo uno: quello della madre biologica, o meglio, della madre che partorisce. L’altra madre non esiste. Non può firmare nulla, non può prendere decisioni, non può garantire continuità genitoriale. Deve ricorrere a deleghe, autocertificazioni, incastri burocratici. Deve spiegare, giustificare, chiedere permesso.
In caso di emergenza medica, non ha voce in capitolo. In caso di separazione, rischia di perdere chi ha cresciuto. In caso di lutto della madre biologica, il figlio o la figlia può essere dato in affido, anche a parenti che non ha mai conosciuto.
Questo non è un incidente normativo. È una precisa scelta politica. È la conseguenza di una cultura istituzionale che ancora oggi considera legittima solo una forma di famiglia. È qui che si annida la vera discriminazione: non nelle frasi ignoranti di passanti occasionali, ma negli articoli di legge, nelle prassi dei comuni, nei silenzi dei tribunali.
Famiglie orgogliose, non famiglie da compatire
Chi pensa che le famiglie con due mamme siano “alternative” non ha idea della forza che serve per diventare genitrici in un contesto ostile. Non c’è spazio per l’improvvisazione. Ogni passo è frutto di una scelta condivisa, discussa, voluta. Ogni figlio o figlia nato da una coppia lesbica è il risultato di un progetto d’amore lucidissimo, spesso pianificato da anni e per anni.
Queste famiglie non chiedono compassione. Non cercano sconti. Pretendono di essere viste. Pretendono diritti per le proprie figlie e per i propri figli, ma, soprattutto, doveri. Doveri nei confronti delle e degli stessi. Vogliono ciò che già è previsto per tutte le altre: essere riconosciute come famiglie, senza asterischi, senza spiegazioni da dare.
E il paradosso è sotto gli occhi di tutte e tutti: nelle coppie etero che accedono all’eterologa, dove magari il padre legale non è quello biologico, nessuno si scomoda a contestare. Nessuno metterebbe in dubbio la sua capacità genitoriale. Nessuno confonde la capacità di procreare con la capacità genitoriale. Non serve una sentenza. Non serve un giudice. Non servono assistenti sociali in casa. Non serve dimostrare amore o idoneità. La legge li riconosce perché sono, appunto, genitori… (eterosessuali).
L’Europa c’è, l’Italia no
Molti paesi europei – dalla Spagna alla Danimarca, dalla Francia ai Paesi Bassi – hanno riconosciuto da tempo il diritto alla genitorialità per le coppie dello stesso sesso. Offrono accesso alla PMA, registrano entrambe le genitrici all’anagrafe, garantiscono tutela legale per chi nasce in queste famiglie.
L’Italia, invece, resta indietro. Non per incapacità, ma per volontà politica. Preferisce ignorare le sentenze delle corti europee, rimuovere i certificati di nascita con due madri, trasformare l’amore in burocrazia. Eppure, le famiglie ci sono. Esistono. Vivono. Resistono. Crescono figli e figlie felici, consapevoli, amati.
Il problema non sono le coppie di donne le lesbiche. Il problema è chi non le vede.
Parlare di genitorialità lesbica non è una questione di nicchia. È una questione di diritti civili, di uguaglianza sociale, di responsabilità educativa. Chi lavora con l’infanzia – insegnanti, educatrici, educatori, pediatre, psicologi – ha il dovere di conoscere e riconoscere queste famiglie. Di smettere di usare moduli che chiedono “padre e madre”. Di formarsi, di aggiornarsi, di stare al passo con la realtà.
Il cambiamento non arriverà dall’alto. Non verrà con una legge miracolosa o un governo illuminato. Ma cresce ogni giorno nelle scelte coraggiose di tante donne che decidono di non aspettare. Che scelgono di essere genitrici in un Paese che le ostacola.