“I bambini hanno bisogno di una mamma e di un papà”. È una frase che spesso viene pronunciata con sicurezza, ma senza vera consapevolezza. Di fronte a un’asserzione del genere, la prima domanda che dovremmo porci è: servono davvero una madre e un padre, o servono figure adulte capaci di offrire amore, protezione, ascolto e coerenza? Serve un ambiente sicuro, o un copione normativo che replichi ruoli imposti e spesso fallimentari?
Il bisogno reale: un contesto affidabile, non un cliché
Crescere è un viaggio complesso. Non bastano due genitori qualsiasi per garantire lo sviluppo sereno di una creatura. La funzione genitoriale, infatti, non coincide con la capacità biologica di riprodursi. Crescere figlie e figli richiede responsabilità, cura, una profonda capacità di presenza e un’intelligenza emotiva che non tutte e tutti, purtroppo, possiedono o coltivano.
In questo senso, “madre e padre” non rappresentano solo identità anagrafiche o ruoli sociali. Rappresentano piuttosto funzioni relazionali, affettive, simboliche. E quelle funzioni possono essere incarnate da due madri, due padri, da una sola figura adulta, da una rete familiare più ampia o da una comunità attenta e non giudicante.
Ciò che serve davvero a chi cresce è sentirsi al sicuro, ascoltato, accolto per quello che è. Serve uno spazio relazionale in cui ogni emozione possa trovare un nome, ogni paura una risposta, ogni soggettività un riconoscimento. Non stereotipi, ma coraggio relazionale.
La famiglia non è una forma, è una funzione
Esistono famiglie monogenitoriali, ricostituite, arcobaleno, affidatarie, adottive. Ogni assetto familiare può essere funzionale oppure disfunzionale, indipendentemente dal genere, dall’orientamento sessuale o dalla configurazione numerica dei membri delle persone adulte. Quello che fa la differenza non è il modello familiare, ma la qualità delle relazioni che lo abitano.
Troppo spesso si confonde la “normalità” con la frequenza statistica. Ma la normalità vera è quella che nutre, non quella che si ripete. La violenza, l’autoritarismo, la freddezza emotiva, la negazione delle soggettività non fanno meno danni solo perché si manifestano all’interno di famiglie “tradizionali”.
È fondamentale riconoscere che la funzione genitoriale prescinde dall’identità di genere e dall’orientamento sessuale. Ciò che conta è la capacità di offrire confini chiari e affetto incondizionato, di ascoltare senza giudicare, di accogliere senza dover correggere ciò che è semplicemente diverso.
Differenze che fanno paura… alle persone adulte
Molte delle affermazioni più dure e discriminatorie verso modelli familiari alternativi nascono dalla paura. Paura dell’ignoto, paura del cambiamento, paura di mettere in discussione strutture che abbiamo interiorizzato come indiscutibili. Ma questa paura è adulta. Non appartiene a chi cresce, che anzi spesso accetta con naturalezza differenze e complessità.
Il problema non sono le famiglie che escono fuori dall’immaginario standardizzato, ma le persone impreparate. Insegnanti, genitori, educatrici e educatori che non sanno come rispondere a una domanda su due mamme o due papà, che non sanno come affrontare l’orientamento affettivo di un adolescente, che giudicano senza comprendere.
Abbiamo bisogno di cultura relazionale, non di formule precostituite.
Ambiente sicuro: il nutrimento invisibile
Un ambiente sicuro non è quello in cui tutto va sempre bene, ma quello in cui anche il dolore può essere detto, in cui le emozioni trovano cittadinanza, in cui si può fallire senza perdere amore. Un ambiente sicuro è quello in cui le persone adulte sanno gestire i conflitti, chiedere scusa, fare autocritica.
L’ambiente influisce enormemente sul benessere psicofisico di chi cresce. La sicurezza emotiva è più determinante del benessere economico, la qualità delle relazioni è più potente della quantità di giocattoli. Eppure questi aspetti restano spesso invisibili, non quantificabili, trascurati.
Serve un contesto che educa all’ascolto e non al silenzio. Che riconosce e valorizza le emozioni. Che sa parlare della morte, della rabbia, del desiderio, della fragilità. Un contesto che protegge senza soffocare e guida senza imporsi.
Riproduzione o crescita?
La maggior parte delle persone può diventare madre o padre, biologicamente parlando. Ma poche sanno davvero essere figure genitoriali. Essere genitore significa accogliere la propria complessità e quella dell’altri individui, accompagnare senza possedere, saper stare nella fatica senza demandarla. È una funzione che si esercita, non un diritto automatico.
Troppo spesso le cronache ci raccontano di famiglie dove la violenza, l’abuso psicologico o il controllo emotivo sono all’ordine del giorno. Tutto questo accade in contesti apparentemente “normali”, a conferma che il problema non è la struttura, ma il contenuto.
Non serve un’etichetta di “madre” o “padre” per essere una guida significativa. Serve un’autenticità profonda. Serve il coraggio di rompere le catene della ripetizione, di disimparare l’educazione autoritaria, di dare valore alla gentilezza, alla presenza emotiva, alla vulnerabilità come forza e non come difetto.
E allora, davvero serve una mamma e un papà?
O forse servono semplicemente persone emotivamente mature?