Nel nostro immaginario collettivo esiste ancora un’idea rigida di “normalità” che, invece di abbracciare la complessità della mente umana, tende a escludere, patologizzare o marginalizzare chiunque si discosti dallo standard dominante: le neurodivergenze. Ma chi ha deciso che esiste un solo modo “giusto” di pensare, apprendere, sentire?
Neurodivergenze: una realtà plurale
Prospettiva medica e diagnostica
L’ambito clinico classifica spesso condizioni come ADHD, dislessia e autismo solo come ‘disturbi’, basandosi su criteri che mettono in evidenza le difficoltà rispetto al funzionamento tipico. Esempio, l’ADHD è descritto nel DSM-5 come un disturbo dell’attenzione e dell’iperattività perché può causare difficoltà in un sistema che richiede concentrazione prolungata e organizzazione.
Prospettiva della neurodiversità
Il movimento per la neurodiversità, invece, contesta questa visione patologizzante e sottolinea che questi funzionamenti cerebrali non sono difetti, ma varianti naturali dell’essere umano. L’idea di “deficit” nasce da un confronto con una norma imposta, non da un’oggettiva mancanza di capacità.
Implicazioni sociali ed educative
Considerare le neurodivergenze come semplici “deficit” rischia di rafforzare lo stigma e giustificare pratiche abiliste, mentre vederle come differenze invita a costruire ambienti più inclusivi e adatti a tutte e tutti.
Autismo, ADHD, dislessia, discalculia, sindrome di Tourette: sono solo alcune delle condizioni neurologiche che influenzano il modo in cui una persona percepisce il mondo, interagisce con gli altri, apprende e comunica.
Sebbene possano comportare difficoltà in ambienti strutturati secondo modelli neurotipici, non si tratta di deficit in senso assoluto, ma di differenze nel funzionamento cognitivo che meritano di essere comprese e valorizzate.
Eppure, ancora oggi, chi esce dai canoni neurotipici si scontra con un sistema che premia l’omologazione e punisce la differenza. Nelle scuole, nei luoghi di lavoro, persino nelle relazioni personali, chi ha una neurodivergenza deve spesso adattarsi a un ambiente che non tiene conto delle sue caratteristiche, invece di trovare spazi progettati per includere e valorizzare le diverse modalità cognitive.
Lo stigma che soffoca
Le neurodivergenze portano con sé una serie di stereotipi e pregiudizi. Chi ha ADHD è “troppo distratto” o “troppo impulsivo”. Chi ha autismo viene visto solo come “troppo rigido”, “poco empatico” o addirittura “geniale ma asociale”. Questi luoghi comuni non solo sono riduttivi, ma anche dannosi. Creano barriere invisibili che limitano le opportunità educative, professionali e sociali di chi ha un funzionamento cognitivo differente.
Pensiamo alle bambine e ai bambini neurodivergenti: spesso non vengono riconosciuti o ricevono diagnosi tardive, perché i modelli diagnostici sono stati costruiti in base ai tratti osservati nei maschi. Molte bambine con autismo, ad esempio, sviluppano strategie di “mascheramento” per adattarsi al proprio contesto, ma a costo di un enorme stress psicologico che, crescendo, può trasformarsi in ansia, depressione e burnout.
Il peso della conformità
L’educazione, invece di essere un percorso che valorizza le peculiarità di ogni persona, troppo spesso diventa un percorso a ostacoli per chi non si conforma. Le scuole non sono progettate per accogliere la neurodiversità: si chiede a chi ha l’ADHD di stare fermo per ore, a chi ha una sindrome dello spettro autistico di socializzare secondo modelli prestabiliti, a chi ha dislessia di leggere e scrivere senza supporti. Quando le esigenze delle persone neurodivergenti vengono viste come “problemi” da correggere, il risultato è un’educazione che non è davvero utile.
E non finisce con l’infanzia: anche nel mondo del lavoro le persone neurodivergenti si scontrano con dinamiche abiliste. I colloqui di lavoro, la gestione del tempo, l’organizzazione degli spazi sono pensati per chi rientra nella norma neurotipica, rendendo l’accesso e la permanenza nel mondo del lavoro più difficili per chi processa informazioni o interagisce in modo differente.
Verso una nuova cultura psicologica
Lo stigma legato alle neurodivergenze non è solo un problema individuale: è un problema culturale. Significa che l’intera società si sta privando della creatività, dell’intuizione, della sensibilità di persone che potrebbero contribuire con prospettive nuove e preziose.
Smettiamo di considerare le differenze cognitive come un limite da superare o un peso da sopportare. Iniziamo a vedere la neurodiversità per ciò che è: un’espressione della varietà umana, una risorsa che ci permette di ampliare il nostro sguardo sul mondo.