Nelle società occidentali, la morte è spesso trattata come un confine invalicabile, un vuoto da non nominare. Bambine e bambini vengono “protetti” dal dolore come se fosse un’ombra da tenere lontana (e come se dal dolore ci si potesse davvero proteggere). Ma negare la morte significa negare una parte fondamentale della vita.
Ci sono culture che non nascondono la morte, ma la accolgono, la celebrano, la intrecciano al quotidiano con rituali e racconti che la rendono meno spaventosa. Queste culture custodiscono una verità profonda, una saggezza che riconosce l’impermanenza di tutte le cose senza paura. E se provassimo a guardare la morte con i loro occhi?
Occidente: la morte sotto il tappeto
In molte famiglie occidentali, quando una persona muore si abbassa la voce, si evitano discorsi diretti, si usano figure retoriche: “È volata in cielo”, “Si è addormentata”, “Ora è in un posto migliore”.
Ma la morte non è un sonno, né un viaggio di sola andata verso una destinazione ignota. È un cambiamento, un passaggio, e le bambine e i bambini lo sanno istintivamente. Sono loro, spesso, a porre le domande più dirette: “Dove va chi muore? Tornerà? Succederà anche a me?”.
Evitare queste domande non le fa scomparire. Anzi, le trasforma in paure senza nome. E se invece insegnassimo a guardare la morte con occhi diversi? Se trovassimo modi per raccontarla con rispetto e naturalezza, come fanno altre culture?
Messico: ballare con la morte
Ora immagina questa scena: una bambina ride davanti a un teschio di zucchero colorato. Sullo sfondo, ci sono candele accese, petali di calendula e un altare ricoperto di fotografie.
Siamo in Messico, durante il Día de los Muertos. Qui, la morte non è un evento tragico, ma un’occasione per celebrare chi non c’è più. Si balla, si mangia, si raccontano storie. Bambine e bambini crescono con l’idea che i morti non scompaiono davvero, ma restano accanto a loro in un altro modo.
Questa visione è potente: ci insegna che la morte non è un’assenza, ma una trasformazione. I legami restano, i ricordi si fanno vivi, la presenza si sposta ma non svanisce.
Giappone: il ponte tra passato e presente
Nelle notti d’estate, sulle rive dei fiumi giapponesi, centinaia di lanterne galleggiano sull’acqua, illuminando il buio con luci tremolanti. È la celebrazione di Obon, il festival in cui le persone ricordano gli antenati e accolgono i loro spiriti per qualche giorno.
In Giappone, la morte non è una cesura netta, ma un filo sottile che unisce chi è vivo a chi non lo è più. Fin da piccole e piccoli, si insegna che onorare chi è venuto prima di noi è un gesto naturale, non un tabù.
Rituali come questi hanno qualcosa di profondamente spirituale: sono ponti tra il visibile e l’invisibile, tra il presente e l’eterno. Forse dovremmo riscoprire il valore del rito, la capacità di connetterci con ciò che non vediamo ma possiamo sentire.
India: la morte come metamorfosi
Una bambina osserva una farfalla posarsi su una statua di Ganesha. Sua madre le sorride e le dice: “Forse quella farfalla era una persona che conoscevamo. Niente finisce davvero”.
In India, influenzata dall’induismo e dal buddismo, la morte non è vista come una fine, ma come un passaggio. L’idea della reincarnazione insegna che la vita è un ciclo in cui ogni esistenza lascia un segno, ma continua in una nuova forma.
Per molte bambine e bambini indiani, la morte è un viaggio, non una scomparsa definitiva. E io trovo che questa sia una delle visioni più rasserenanti che possiamo offrire a chi cerca risposte: sapere che tutto cambia, si trasforma, ma nulla si perde.
Tradizioni africane: il villaggio che ricorda
In alcune culture dell’Africa occidentale, il giorno del funerale non è un momento di silenzio e lacrime, ma una celebrazione che dura giorni. Si canta, si danza, si raccontano storie della persona scomparsa. Il lutto è collettivo, il dolore condiviso.
In Ghana, esistono persino bare personalizzate: c’è chi viene sepolta in una bara a forma di pesce, chi in un libro. L’idea è che la bara racconti la vita della persona che vi riposa.
Forse potremmo imparare ad affrontare la morte come un racconto che continua. Parlarne, ricordare, creare rituali personali che trasformino la perdita in una presenza nuova
Cosa ci insegna tutto questo?
Ogni cultura ha il proprio modo di affrontare la morte, ma tutte, in un modo o nell’altro, mostrano che la morte non è solo un evento, ma un’esperienza da comprendere, accettare e trasformare.
Nella cultura occidentale, la paura della morte affonda le radici in secoli di rimozione e negazione. Il pensiero razionalista e la visione materialista della vita hanno progressivamente separato l’essere umano dal senso del sacro e del ciclo naturale dell’esistenza. La morte è stata confinata negli ospedali, nascosta dietro porte chiuse, evitata nel linguaggio quotidiano. Le religioni monoteiste hanno spesso rafforzato l’idea della morte come giudizio finale, un passaggio irrevocabile che segna una divisione netta tra la vita e l’aldilà.
In altre culture, invece, la morte è parte di un flusso continuo, un cambiamento inevitabile come le stagioni. Questa prospettiva apre alla possibilità di accogliere il mistero senza timore, di integrare il lutto nella vita senza negarlo, di mantenere vivo il legame con chi non c’è più.
Forse il vero cambiamento sta proprio nel modo in cui scegliamo di raccontare la morte alle bambine e ai bambini: non come un tabù da evitare, ma come un passaggio naturale, un filo invisibile che continua a legare ciò che è stato a ciò che sarà.