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ADHD – Quando scopri chi sei troppo tardi, ma non è mai troppo tardi

La storia di Alberto, 48 anni e la diagnosi di ADHD in età adulta

Ho sempre saputo di essere diverso

Da bambino non riuscivo a stare fermo, parlavo troppo, perdevo tutto. I quaderni erano pieni di macchie di inchiostro, scarabocchi, pezzi mancanti. Ogni compito iniziava con entusiasmo e finiva in un’altra dimensione, dimenticato, incompleto.

A scuola mi dicevano che ero intelligente, ma svogliato. “Se solo si impegnasse di più,” dicevano agli incontri con i miei genitori. A casa, la musica non cambiava: “Perché non puoi essere più organizzato?”, “Perché devi sempre rovinare tutto all’ultimo momento?”.

Ho passato tutta la mia infanzia e adolescenza a farmi questa domanda.

L’infanzia della frustrazione

Crescendo, le difficoltà non facevano che accumularsi. Non erano solo i voti altalenanti, la disorganizzazione cronica, il perenne senso di essere “fuori posto”. Era la fatica.

Fatica nel ricordare, nel finire, nel mantenere l’attenzione. Fatica nel dover costantemente nascondere quello che ero, nell’ascoltare i rimproveri, nell’essere trattato come uno che “non si applica abbastanza”.

E allora provavo. Davvero, ci provavo.

Facevo liste di cose da fare, ma le perdevo. Cercavo di studiare con metodo, ma la mente scappava via. Scrivevo appunti ordinati, poi dimenticavo dove li avevo messi.

Quando qualcosa mi interessava davvero, invece, diventavo ossessionato. Potevo passare ore a leggere, a disegnare, a fantasticare su progetti che poi non realizzavo mai. Era come se vivessi tra due estremi: troppo, o niente.

Il mondo intorno a me non capiva. Io non capivo.

E alla fine, ho iniziato a credere che il problema fossi io.

L’età adulta: stessi errori, stesse etichette

Sono diventato adulto portandomi dietro il peso del “non abbastanza”. Non abbastanza costante nel lavoro, non abbastanza organizzato, non abbastanza maturo nelle relazioni. Cambiavo spesso lavoro, spesso amici, spesso vita. L’unica cosa che restava uguale era la sensazione di fallire sempre su qualcosa.

Poi è arrivata mia figlia.

Una bambina brillante, curiosa, capace di parlare per ore di quello che la appassionava e di ignorare completamente tutto il resto. Una bambina che perdeva le matite, si dimenticava i compiti, si agitava sulla sedia e non riusciva a stare concentrata più di qualche minuto.

Una bambina che, a sette anni, ha ricevuto una diagnosi di ADHD. E leggendo il referto, ho visto la mia vita. Ho dato un nome a ciò che sono anche io.

ADHD

Quattro lettere che hanno riscritto tutta la mia storia. Ho iniziato a leggere, a informarmi. E più leggevo, più tutto tornava: l’impulsività, la distrazione, la difficoltà a organizzarsi. Il fatto che riuscissi a essere incredibilmente produttivo in certi momenti e totalmente inconcludente in altri.

Ero io. Sempre stato io. Così ho deciso di fare una valutazione. Avevo quarant’anni quando mi hanno diagnosticato ufficialmente l’ADHD. Non sapevo se ridere o piangere. Avevo una diagnosi in età adulta.

Perché nessuno se ne era accorto prima? Perché nessuno mi aveva aiutato? Perché avevo passato tutta la mia vita sentendomi inadeguato, quando c’era una spiegazione, una parola che poteva darmi risposte? Ma la rabbia è durata poco.

Perché la verità è che saperlo mi ha cambiato la vita. Non ho una macchina del tempo per tornare indietro e dire al me bambino: “Non sei pigro, hai solo bisogno di un metodo diverso”.

Non posso risparmiarmi anni di frustrazione, di autostima distrutta, di sensazione di essere rotto.

Ma posso fare qualcosa oggi.

Posso accettare che il mio cervello funziona in modo differente. Posso smettere di lottare contro me stesso e iniziare a lavorare con me stesso. Posso adottare strategie che mi aiutino a focalizzarmi, a gestire il tempo, a non lasciare che la mia mente corra in mille direzioni senza concludere nulla.

E, soprattutto, posso essere il padre di cui mia figlia ha bisogno.

Non le dirò mai che “basta impegnarsi di più”, né che è sbagliata perché non si adatta agli schemi. Non crescerà sentendosi rotta, come è successo a me. E questo, in fondo, è tutto ciò che conta.

Il mio ADHD non mi definisce, ma mi spiega molte cose

Oggi so che il mio ADHD non è un limite. È una parte di me. Mi rende curioso, creativo, capace di vedere connessioni che altri non vedono. Mi fa pensare fuori dagli schemi, mi dà un’energia che, se incanalata bene, mi porta lontano.

Avrei voluto scoprirlo prima? Sì. Ma anche così, non è troppo tardi. Non lo è mai.