Storie

Lettera da una sopravvissuta inascoltata

Ciao a tutte e tutti, ho portato il silenzio addosso come un cappotto troppo stretto. Ho taciuto per non perdere il lavoro. Ho taciuto per non sentirmi dire che me l’ero cercata. Ho taciuto perché quando ho provato a parlare, le risposte mi hanno fatto più male della violenza stessa.

Mi ha molestata un uomo di potere, uno di quelli che sanno esattamente come muoversi, come rendere un gesto ambiguo, difficile da spiegare. Mi ha toccata senza il mio consenso. Mi ha guardata come se fossi un oggetto, come se avesse diritto al mio corpo solo perché io ero lì, sola, giovane, vulnerabile. In pochi istanti ho sentito la pelle diventare cemento. Il cuore battere troppo veloce. La voce spegnersi.

Domande sbagliate quando si parla di violenza

Quando ho trovato il coraggio di raccontarlo, mi aspettavo supporto. Mi aspettavo che qualcuno dicesse: “Ci credo. Non è colpa tua.” Ma invece ho trovato sguardi dubbiosi, domande sospettose, insinuazioni velenose: “Sicura che non gli abbia dato corda?” “Ma magari hai frainteso.” “Eri vestita in modo provocante?” “Non stai esagerando?”

Quelle parole mi hanno colpita più del gesto. Mi hanno ferita profondamente. Perché in un attimo ho capito che, in quel contesto, la mia verità – l’unica verità – non aveva spazio. Il mio dolore non era comodo. E allora ho taciuto. Per salvare il lavoro, per non diventare “quella problematica”. Per non essere etichettata come la fragile, la difficile, la drammatica.

La colpevolizzazione della vittima

La cultura del victim blaming uccide due volte. Ti fa sentire sbagliata anche quando sai perfettamente di essere nel giusto. Ti isola, ti lascia nuda davanti a un muro di indifferenza. E se non sei abbastanza forte – e nessuno dovrebbe doverlo essere in quei momenti – rischi di affogare nel senso di colpa, nella vergogna, nella paura.

Ho vissuto giorni di solitudine nera. Avevo bisogno di essere creduta, abbracciata, difesa. Invece ho trovato silenzio o, peggio, accuse sottili. Ho visto persone che dicevano di volermi bene fare finta di nulla, continuare a sorridere a chi mi aveva fatto male, mantenere rapporti come se nulla fosse accaduto. E ogni volta che lo vedevo, ogni volta che il suo nome veniva nominato con leggerezza, il mio stomaco si chiudeva.

Ero cosciente di ciò che era successo. Non avevo dubbi. Ma non avevo armi. Perché in un mondo dove ancora troppe volte chi denuncia viene messo sotto accusa, il coraggio da solo non basta. Serve una rete. Serve uno sguardo che dica “ti credo”. Serve che smettiamo di domandarci cosa indossava la vittima e iniziamo a chiederci perché il molestatore si sente autorizzato.

L’indifferenza delle persone

Quello che mi ha fatto più male non è stato solo il gesto, ma il vuoto intorno. L’indifferenza. L’invisibilità. La mancanza di alleati. Il fatto che le persone a cui avevo affidato il mio dolore abbiano preferito la comodità della negazione alla verità scomoda del mio vissuto.

Scrivo ora, da un luogo più sicuro, perché ho fatto un lungo percorso per rimettere insieme i pezzi. Per guardare quella parte della mia storia con occhi nuovi. Non c’è più vergogna in me. C’è rabbia, sì, ma anche consapevolezza. E il desiderio profondo che nessun’altra persona debba passare ciò che ho passato io.

Un futuro diverso

Scrivo per chi ha subito una molestia e ha scelto il silenzio per non perdere tutto. Per chi è stato colpevolizzato, ignorato, escluso. Scrivo per chi ancora si sente sbagliato, ma in fondo sa che ha solo provato a proteggersi come poteva. E scrivo anche per chi, leggendo, potrà finalmente dire: “Non sono sola. Non sono solo. Non sono io il problema.”

Il problema è un sistema che protegge chi fa male, chi esercita violenza e giudica chi lo subisce. Ma non deve restare così. Dobbiamo parlarne, anche se la voce trema. Dobbiamo crederci a vicenda, sostenerci, alzarci insieme.

Se sospetti che una persona sia vittima di violenza o se tu stessa o tu stesso stai vivendo una situazione di abuso, chiedi aiuto a professionisti, centri antiviolenza o servizi di supporto specializzati. Parlare è il primo passo per spezzare il silenzio e trovare una via d’uscita.”