Mi chiamo Awa, ma per anni mi hanno chiamata “cioccolatino”. A volte anche “nutella”, “africana”, “quella nera”, “abbronzata”. Mai con malizia, dicono. “Era per scherzare”, dicevano. Ma quando sei l’unica bambina nera in una classe piena di bianchi, non è mai solo un gioco. È identità che si spezza. È un nome che non ti viene restituito. È una vita raccontata da altri. È razzismo interiorizzato che si insinua.
Sono nata a Torino, da genitori senegalesi. A casa parlavamo wolof e francese insieme, come succede in tante famiglie senegalesi a Dakar, ma a scuola facevo di tutto per cancellare ogni traccia di quello che mi rendeva diversa. Non volevo che si sentisse l’accento di mia madre. Non volevo che sapessero che mangiavamo il thieboudienne e non la pasta al pomodoro. Volevo che il mio nome suonasse meno “strano”. Volevo sembrare come loro. Per essere accettata, ho imparato a rifiutarmi.
Il razzismo non comincia con l’odio. Comincia col ridere.
I primi episodi non sembrano gravi, almeno non agli adulti. “Ehi Awa, se spengo la luce ti trovo lo stesso?” Risate. “Ma al sole ti abbronzi di più o di meno?” Risate. “Posso toccarti i capelli?”.
Ma a ogni risata, io mi rimpicciolivo.
Non c’erano insulti apertamente violenti, almeno non all’inizio. Ma c’era una costante riduzione a oggetto, a barzelletta vivente. Il mio corpo, la mia pelle, i miei tratti: tutto diventava occasione di spettacolo. La mia esistenza era sempre “altrove”, sempre “fuori posto”. E il peggio è che ci ho creduto anche io.
Razzismo interiorizzato: quando inizi a odiarti per piacere agli altri
C’è una forma di razzismo che non si vede, ma lascia segni profondi: si chiama razzismo interiorizzato. È quando la discriminazione si fa casa dentro di te. Quando cominci a pensare che sei davvero “troppo”, “sbagliata”, “non abbastanza italiana”. Quando la ferita è così profonda da sembrare tua, non di chi l’ha inferta.
Io a sei anni volevo la pelle bianca. A dieci lisciavo i capelli ogni volta che potevo, anche se bruciavano. A quattordici evitavo ogni contatto con altri ragazzi neri per non essere “quella del gruppo africano”. A sedici dicevo che la mia famiglia era del sud Italia. Mentivo per sopravvivere.
Il razzismo non si manifesta solo con l’odio aperto, ma con l’assenza di rappresentazione, con l’omissione, con il silenzio degli adulti quando i bambini fanno battute razziste. Con gli insegnanti che dicono “non esagerare” quando cerchi di spiegare che quelle parole fanno male. Con i compagni che non ti scelgono mai per recitare la parte della “principessa” o della “fidanzata” nelle recite. Perché una bambina nera, semplicemente, non è mai la protagonista.
Crescere in un Paese che dice di non essere razzista
L’Italia è un paese che ama definirsi “accogliente”. Ma l’accoglienza vera non è “tollerare” chi è diverso. È rivedere il proprio sguardo. È mettere in discussione il privilegio invisibile di chi può vivere, crescere e sbagliare senza che il colore della pelle entri nel giudizio.
Io non ho mai avuto quel privilegio.
Se ero arrabbiata, ero “aggressiva”. Se ero triste, “ingrata”. Se rispondevo, “maleducata”. Il mio comportamento veniva sempre letto attraverso il filtro del pregiudizio. Come se fossi ospite in un Paese dove sono nata.
E allora sì, posso dire che l’Italia è razzista. Non per ideologia, ma per sistema. Un sistema che ancora oggi fatica a pronunciare parole come “privilegio”, “razzismo sistemico”. Un sistema che si difende dietro il “non volevo offenderti” invece di chiedersi perché offende.
E i figli di chi legge?
Scrivo questa lettera per le madri e i padri che oggi crescono figli bianchi in questo Paese. Per chi dice “ma mio figlio non è razzista”. Per chi pensa che basti non insegnare l’odio.
Vi chiedo di insegnare anche il rispetto attivo. Di parlare di razzismo a casa. Di raccontare ai vostri figli e figlie che le parole hanno peso, che lo sguardo giudica, che il silenzio è complice.
Perché nelle scuole i bambini neri, arabi, rom, asiatici esistono. E non basta dire “sono tutti uguali”. Occorre insegnare che le differenze non vanno cancellate, vanno comprese, riconosciute, ascoltate. Perché solo chi è ascoltato può sentirsi reale.
Io sono reale
Mi chiamo Awa. Ho passato metà della mia vita a voler essere invisibile. Oggi scrivo questa storia per chi si è sentita come me. Per chi continua a sentirsi chiamata col proprio colore e non col proprio nome.
Se non sapete cosa dire, ascoltate. A volte è l’unica rivoluzione possibile.