Storie

Quando essere un ragazzo omosessuale fa paura. La storia di Luca

Mi chiamo Luca, ho superato i quarant’anni e oggi conduco una vita serena. Ma per arrivare qui ho dovuto attraversare un deserto fatto di silenzi, paura e solitudine. Questo non è un racconto su un lieto fine: è il tentativo di mettere in parole ciò che spesso non ha voce, per chi si prende cura delle nuove generazioni e si chiede che fine facciano certi silenzi, certe “stranezze”, certe solitudini che crescono in silenzio quando sei un ragazzo omosessuale.

Da ragazzo mi sentivo un errore. Ero “quello strano”. Non lo dicevano apertamente, ma bastava uno sguardo, un gesto ritirato, una battuta detta tra i denti. Non giocavo a calcio, non parlavo delle ragazze, avevo uno sguardo troppo assorto, un corpo che non sapevo abitare. Soprattutto, avevo un segreto che non sapevo nemmeno nominare. In un mondo che parlava solo “in modo eterosessuale”, io provavo attrazione per i maschi. Ma non lo sapevo spiegare, e nemmeno volevo. Era solo paura, disagio, confusione.

La scuola

A scuola ero invisibile e, quando non lo ero, diventavo bersaglio. La mia adolescenza è stata un lungo inverno: freddo fuori, gelido dentro. Uscivo poco, parlavo ancora meno. I momenti più bui arrivavano la sera, quando tutto taceva e mi rimanevo addosso come un abito troppo stretto. Non c’era nessun adulto che mi chiedesse “come stai davvero?”. Eppure, sarebbe bastato così poco.

L’isolamento che si vive quando non si è conformi – per l’orientamento, l’identità, il carattere – non è solo sociale. È anche interno. È il sentirsi inadatti a vivere. E quando ti senti così, inizi a sparire. Non in modo eclatante: non ti uccidi, ma smetti piano piano di esserci. Io, ad esempio, ho smesso di partecipare. A scuola ero fisicamente presente, ma inaccessibile. Il mio corpo era lì, ma la mia mente era altrove.

In famiglia

La mia famiglia? Assente, pur essendo sempre presente. Di loro ricordo l’odore della domenica a pranzo, la rigidità delle regole, la religione come punizione e la paura di essere scoperto. Nessuno spazio di ascolto, nessuna domanda sincera. Quando iniziarono a “sospettare” qualcosa di me, vennero le frasi velenose: “Hai qualcosa da dirci?”, “Stai diventando effeminato?”, “Guarda che non è normale…”. Ricordo ancora una frase che mi trafisse come un ago: “Un uomo vero non si comporta così”.

Frasi che uccidono

Un uomo vero. Ci ho messo anni a capire che quella parola non significava nulla se non si accompagnava a libertà e rispetto. E che io, già allora, ero un uomo vero, anche se tremavo, anche se non capivo me stesso, anche se piangevo in silenzio. Anche se ero un ragazzo omosessuale.

Il corpo, nei momenti di forte tensione, trova i suoi modi per esprimersi. Nel mio caso, lo fece con l’enuresi notturna. Avevo quattordici anni e continuavo a bagnare il letto. Era il mio modo fisico, involontario, di dire “sto male”. Nessuno lo ha mai capito. Ero “il grande che si comporta come un bambino”. In realtà, ero solo un ragazzo omosessuale, adolescente, senza strumenti, travolto da un’identità che nessuno mi aiutava a esplorare.

Vivere in un vuoto culturale

È difficile raccontare cosa significhi crescere senza specchi. Nessun libro a scuola parlava di amori diversi, nessun insegnante nominava l’affettività senza trascinarla nel campo della vergogna. L’educazione sessuale era un tabù, l’educazione emotiva un miraggio. Oggi che lavoro con giovani persone e adulti educanti, mi rendo conto che quello che mi mancava non era “l’accettazione”, ma la possibilità di nominare me stesso senza paura.

L’inizio della nuova nascita

Un giorno, intorno ai 16 anni, sentii in radio una trasmissione che parlava di un ragazzo omosessuale senza derisione. Ricordo ancora il brivido: “Allora non sono solo”. Quella frase, semplice e banale, fu una crepa di luce nella mia gabbia. Da lì ho iniziato, lentamente, a immaginarmi libero. Non ci fu un coming out da film, ma una serie di piccoli passi: una confessione all’amica fidata, un diario nascosto, una canzone ascoltata in loop che sembrava parlarmi direttamente.

Col tempo ho trovato parole, risposte, riferimenti. Ho studiato, letto, amato, sbagliato. Ho fatto terapia, ho imparato a decostruire l’omofobia interiorizzata che mi mangiava dentro. Ho incontrato altre persone simili a me. E finalmente mi sono sentito a casa, non in un luogo fisico, ma in uno spazio emotivo.

Oggi, quando parlo con insegnanti o genitrici e genitori, dico sempre una cosa: non aspettate che i giovani vi chiedano aiuto. Fate voi il primo passo. Nominare la diversità, mostrare che esiste uno spazio sicuro, è il gesto più potente che si possa fare. Un ragazzo o una ragazza queer non ha bisogno di essere compatito, ma di essere ascoltato, nominato/a, considerato/a parte del tutto. L’inclusione non è una moda, è un’urgenza pedagogica.

Una nuova prospettiva

So che non tutte le storie si chiudono bene. Ma so anche che ogni storia che trova ascolto, cambia. Forse non subito, forse non del tutto, ma cambia. Ed è per questo che oggi scrivo: per offrire quello che a me è mancato. Perché il dolore che tace diventa un’eredità tossica, mentre il dolore che si racconta può diventare rivoluzione.

Oggi ho capito che non sono io che dovevo cambiare. Era il mondo.