Mi chiamo Elena, ho 28 anni, e fino a poco tempo fa pensavo semplicemente di essere sbagliata. Distratta, disorganizzata, emotivamente “troppo”. Ma la verità è che ero una ragazza con l’ADHD, mai diagnosticata. E in un mondo che riconosce solo ciò che può vedere, mi sono sentita invisibile per anni.
Sono cresciuta con l’idea di dover “funzionare” come gli altri. A scuola, le maestre mi dicevano che avevo un grande potenziale, ma che “non mi impegnavo abbastanza”. I voti erano altalenanti, le pagine dei quaderni un caos di idee brillanti e scarabocchi. Nessuno si è mai chiesto perché non riuscissi a stare ferma sulla sedia o a portare a termine un compito. E così ho imparato a pensare che fosse colpa mia.
L’ADHD invisibile nelle donne
Molte persone associano l’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività) all’immagine stereotipata del bambino iperattivo e irrequieto. Ma nelle ragazze si manifesta spesso in modo diverso: più introverso, più emotivo, più mascherato. Spesso siamo brave a “coprire” le nostre difficoltà, diventando maestre nel camuffare i nostri fallimenti con un sorriso o con un “va tutto bene”.
Nel mio caso, l’ADHD si è presentato sotto forma di costante sovraccarico mentale, difficoltà nel gestire il tempo, procrastinazione estrema e una ipersensibilità emotiva che mi faceva sentire “troppo” in ogni situazione. Eppure, nessuno si accorgeva che qualcosa non andava. Mi dicevano solo di “organizzarmi meglio”, di “essere più responsabile”, di “smettere di distrarmi”.
Quando l’autostima crolla
La sensazione costante di fallire, anche nelle piccole cose, mina l’autostima in modo subdolo e profondo. A 18 anni, ero convinta di non valere nulla. Nonostante i miei sogni e le mie passioni, continuavo a confrontarmi con chi sembrava riuscire in tutto con facilità. Io invece dimenticavo appuntamenti, perdevo chiavi, consegnavo i progetti in ritardo, lasciavo tutto a metà.
Ogni insuccesso diventava una conferma: “non ce la farò mai”. Mi chiudevo sempre più, fino ad arrivare a periodi di forte ansia e isolamento. Non era depressione, ma qualcosa che mi teneva in una nebbia costante, fatta di frustrazione, fatica e confusione.
La svolta: dare un nome a ciò che provavo
La diagnosi è arrivata per caso. Avevo 26 anni e stavo facendo terapia per l’ansia. La mia terapeuta, dopo diversi incontri, mi ha proposto una valutazione neuropsicologica. Ricordo ancora il momento in cui ho letto il referto: ADHD, tipo prevalentemente inattentivo. Le lacrime sono arrivate subito, ma non di tristezza: erano di sollievo.
Per la prima volta, qualcuno vedeva quello che io sentivo da sempre. Non ero sbagliata. Non ero pigra. E non ero sola.
Vivere con l’ADHD da adulta
Da quel momento, la mia vita non è diventata magicamente facile. Ma ha acquisito un nuovo senso. Ho iniziato un percorso di consapevolezza, accettazione e strategie pratiche per gestire meglio la mia quotidianità. Ho imparato a usare strumenti come il time-blocking, le liste visive, le pause strutturate. Ho ridotto il mio senso di colpa e imparato a chiedere aiuto.
Ancora oggi ho giornate in cui mi sento sopraffatta, ma adesso so perché succede. So che il mio cervello funziona in modo diverso, non peggiore. E so che esistono altre persone come me, che hanno lottato per anni con l’invisibilità delle proprie difficoltà.
Il valore della visibilità
Raccontare questa storia per me non è semplice. Ma se c’è una cosa che ho capito è che la narrazione crea connessione. Quando leggiamo esperienze simili alla nostra, ci sentiamo visti. E per chi vive una neurodivergenza invisibile come l’ADHD, questa visibilità è un atto rivoluzionario.
Per questo ho deciso di parlare. Per tutte le ragazze, le giovani donne, le bambine che si sentono “troppo” o “non abbastanza”. Per tutte le Elena che si stanno chiedendo se c’è qualcosa che non va in loro. La risposta è: no. C’è solo qualcosa che non è stato ancora capito, riconosciuto, visto. L’ADHD nelle donne è spesso silenzioso ma impattante. Invisibile agli occhi, ma profondamente presente nella vita di chi lo vive. Riconoscerlo, nominarlo e parlarne è il primo passo verso una società più consapevole, più accogliente, più giusta. Perché ogni storia conta. Anche la mia.