Chi ha vissuto l’infanzia come un campo di battaglia tra “non ti muovere!”, “concentrati!” e “non riesci mai a finire niente!”, forse conosce già la sensazione di essere fuori tempo, fuori luogo, fuori norma. Perché è così che ci si sente quando il mondo si ostina a leggere ciò che è differente come qualcosa da correggere.
Con l’ADHD nell’infanzia, questo accade ogni giorno. Nel linguaggio comune, è ancora tristemente diffusa l’idea che chi vive con un Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività sia semplicemente “distratto”, “svogliata” o addirittura “maleducato”. Ma le neuroscienze, la pedagogia e la cultura contemporanea ci raccontano una storia diversa. E, forse, è ora che inizi a circolare anche fuori dalle aule accademiche.
Il cervello che funziona “altrimenti”
L’ADHD nell’infanzia – così poi come in età adulta – (acronimo di Attention Deficit Hyperactivity Disorder) non è una scelta, non è un capriccio, non è un errore educativo. È una modalità neurologica diversa di funzionare, un diverso modo di elaborare le informazioni, regolare l’attenzione, contenere l’impulso e gestire il tempo.
La ricerca neuroscientifica mostra che nei cervelli neuroatipici – e in particolare in quelli con ADHD – vi è un’attività differente in alcune aree cerebrali come la corteccia prefrontale e il sistema dopaminergico, responsabili di funzioni esecutive, attenzione e motivazione. Questo significa che i tempi di reazione, la gestione della noia, la pianificazione o l’organizzazione rispondono a logiche interne divergenti rispetto a ciò che è atteso socialmente.
Eppure, ancora oggi, molti ambienti educativi non sono progettati per accogliere queste differenze. Le scuole premiano chi riesce a restare seduto o concentrata per ore. Genitrici e genitori, spesso lasciati soli a decifrare comportamenti considerati “difficili”, si trovano a inseguire etichette che finiscono per soffocare invece di spiegare.
Non c’è nulla di sbagliato in un cervello che funziona diversamente
La domanda che dovremmo iniziare a porci è: perché abbiamo costruito un mondo in cui esiste un solo modo giusto di imparare, di concentrarsi, di stare al mondo?
Nel sistema culturale dominante – lineare, produttivista, adultocentrico – il cervello che diverge è visto come disfunzionale. Ma cosa accadrebbe se cambiassimo paradigma? Se anziché parlare di “disturbo” iniziassimo a parlare di neurodivergenza, riconoscendo che non tutte le differenze sono deficit?
Ciò che chiamiamo ADHD potrebbe essere, in molte situazioni, una straordinaria forma di sensibilità, creatività e pensiero veloce, che ha solo bisogno di spazi più flessibili, ritmi meno opprimenti, adulte e adulti che ascoltano invece di correggere.
Eppure, il linguaggio che utilizziamo è ancora impregnato di giudizio. Una bambina che fatica a stare attenta viene bollata come “svampita”. Un ragazzo che si alza continuamente dalla sedia è visto come “problematico”. Ma se ci fermassimo a osservare da vicino, potremmo scoprire che quel corpo che si muove cerca solo un modo per autoregolarsi. Che quel pensiero apparentemente dispersivo sta cercando nuove strade. Che quella mente ha una logica propria, non meno valida.
ADHD nell’infanzia: non è un problema neurologico. È sociale
L’ADHD non si manifesta nel vuoto. Si manifesta in relazione: con le aspettative delle adulte e degli adulti, con i modelli scolastici, con i sistemi educativi che premiano l’uniformità.
Chi cresce con questa neurodivergenza spesso impara presto a interiorizzare il fallimento. A sentirsi sbagliato, fuori posto, inadeguata. A vivere in un continuo senso di colpa. Non è raro che a questa diagnosi si accompagni, col tempo, bassa autostima, ansia, depressione. Non per la neurodivergenza in sé, ma per il contesto che la stigmatizza.
Serve quindi un cambio di sguardo. E serve in fretta. Perché stiamo perdendo il potenziale di intere generazioni, incasellando l’unicità dentro schemi educativi rigidi, che oggi più che mai mostrano tutti i loro limiti.
Cosa possiamo fare davvero?
Cominciare a raccontare storie diverse. Smettere di trattare l’ADHD come una condanna o come un problema da “normalizzare”. Aprire uno spazio dove la neurodivergenza non sia solo compresa, ma accolta, rispettata e valorizzata.
Significa formare le insegnanti e gli insegnanti. Significa che nelle famiglie si possa parlare apertamente di funzionamenti diversi. Significa progettare ambienti dove muoversi non sia una colpa, ma un diritto. E dove l’attenzione non venga confusa con la sottomissione.
Il danno non è nel cervello. È nel modo in cui lo trattiamo
La nostra responsabilità adulta non è quella di spegnere le differenze, ma di creare i contesti in cui possano fiorire. E per farlo, è necessario ripensare il linguaggio, la cultura, la scuola e l’educazione. Perché il problema non è nelle bambine e nei bambini. È nel nostro sguardo su di loro.
Questo editoriale è parte di una rubrica che cerca di creare cultura psicologica e sociale. Se vivi una situazione difficile, rivolgersi a professioniste e professionisti della salute mentale è un atto di cura, non un fallimento.