L’immagine dell’aula come luogo neutro e sicuro è un mito che regge solo finché si aderisce alle norme implicite che la regolano. Ma cosa accade quando una bambina o un bambino non si adatta a uno standard imposto? Quando un’adolescente si muove in modo “troppo” energico, parla fuori tempo, sfida la verticalità dell’autorità? Cosa succede a chi non si conforma al copione educativo previsto?
Bambine e bambini difficili
Spesso vengono definiti bambini difficili, problematici, non educabili. Ma se cambiassimo prospettiva? Se fosse la scuola a essere rigida, incapace di accogliere soggettività diverse, menti divergenti, storie complesse?
L’educazione come dispositivo di normalizzazione
Fin dalla nascita, le persone vengono immesse in un sistema educativo che seleziona, premia, punisce. La scuola, per com’è strutturata nella maggior parte dei contesti italiani, è un dispositivo che favorisce la conformità: premia chi sta seduto, chi ascolta in silenzio, chi apprende secondo i tempi e le modalità stabilite. Questo modello, ereditato da un’impostazione ottocentesca, industriale, non tiene conto delle profonde trasformazioni psicologiche, sociali e culturali dell’infanzia e dell’adolescenza contemporanee.
Chi ha un funzionamento neurodivergente, ad esempio chi vive con ADHD o DSA, chi ha vissuto traumi, chi porta con sé contesti familiari complessi o esperienze di emarginazione, spesso non trova alcuno spazio di riconoscimento. Viene bollato come irrequieta o irrequieto, svogliata o svogliato. Quando invece il problema non è individuale, ma sistemico.
Tra norme e marginalità: il prezzo dell’adattamento forzato
Molte persone adulte che oggi si occupano di educazione raccontano un passato scolastico segnato da inadeguatezza, umiliazione, esclusione. Il prezzo dell’adattamento è spesso la perdita della propria autenticità. “Dovevo stare zitta per non disturbare”. “Fingevo di non sapere per non sembrare diversa”. “Ho imparato a dissociarmi per sopravvivere”. Frasi così, raccolte nei racconti di chi ha vissuto l’aula come spazio di controllo più che di fioritura, si somigliano tutte.
Eppure, ancora oggi, l’idea dominante è che siano le bambine e i bambini a dover essere aggiustati, raddrizzati, curati. La medicalizzazione precoce, le etichette diagnostiche utilizzate in modo riduttivo, le note sul diario, le sospensioni scolastiche, le punizioni esemplari: tutti strumenti che ribadiscono chi ha il potere e chi deve adeguarsi.
Il corpo indisciplinato come forma di resistenza
Una bambina che si alza continuamente dal banco, un ragazzino che fa domande scomode, una persona giovane che si chiude nel silenzio o esplode in rabbia non stanno solo esprimendo un disagio: stanno comunicando un limite. Il loro comportamento “fuori norma” mette in crisi la norma stessa. È una forma di linguaggio alternativo, non verbale, a volte doloroso, ma autentico.
Il corpo che non si lascia disciplinare, che non si piega, che non obbedisce alle logiche dell’aula standardizzata è un corpo che resiste. Non va patologizzato, ma ascoltato.
In molte scuole, purtroppo, la risposta a questa resistenza è la repressione: si cerca di sedare, contenere, silenziare. L’insegnante, pressata da classi numerose e programmi da rispettare, raramente ha gli strumenti – o il tempo – per fermarsi a decifrare quei segnali. Ma se vogliamo davvero parlare di educazione, dobbiamo smettere di considerare ogni comportamento non conforme come un errore da correggere.
L’inclusione non è un’aula a parte
Parlare di inclusione – parola che va molto di moda ma che viene messa poco in pratica – non significa istituire classi differenziali o laboratori paralleli. Significa trasformare la struttura stessa della scuola, mettere in discussione la didattica frontale, i voti numerici, l’ossessione per la performance. Significa anche ridefinire i rapporti di potere tra persone adulte e persone giovani.
Tutte le persone che lavorano nell’educazione dovrebbero essere formate all’ascolto, alla gestione emotiva, alla comprensione dei segnali del trauma. Le aule dovrebbero essere pensate non come spazi rigidi ma come ambienti adattabili, flessibili, in cui chiunque possa esprimersi in sicurezza.
Invece, oggi più che mai, la scuola sembra escludere chi non aderisce alla norma. Ed è così che l’aula, da spazio di crescita, si trasforma in una gabbia.
Le crepe del sistema iniziano dalla bas
Chiamiamo “difficili” quelle bambine e quei bambini che portano sulle spalle pesi invisibili – o, forse, sarebbe più corretto dire invisibilizzati. Sono soggettività che sfuggono al controllo, che non si lasciano addomesticare, che mettono in crisi le aspettative educative convenzionali. Ma se vogliamo davvero cambiare qualcosa, dobbiamo iniziare cambiando sguardo.
Non c’è nulla di naturale nell’esclusione scolastica. E non c’è nulla di naturale – semmai profondamente culturale – in un sistema educativo obsoleto, progettato più per selezionare che per accogliere.
E se invece l’aula si trasformasse in un giardino selvatico, dove ogni creatura possa crescere secondo la propria soggettività, senza il timore di essere potata o estirpata? Che cosa germoglierebbe, finalmente, in un terreno libero?