Cultura psicologica

Parlare di malattia con bambine e bambini: come affrontare le diagnosi difficili in famiglia?

Quando la malattia entra in famiglia, non bussa. Spesso arriva in silenzio, altre volte fa rumore. A volte, si presenta con una parola che spaventa — tumore, leucemia, malattia rara — oppure con diagnosi destabilizzanti come il diabete, l’epilessia, una condizione cronica o degenerativa. Il primo istinto delle persone adulte è quello di proteggere. E proteggere, per molte e molti, significa tacere. Ma il silenzio, nei confronti di chi cresce, non è una protezione: è una distanza.

Parlare è un atto di cura

In molte famiglie, parlare apertamente di malattia con figlie, figli o con chiunque sia in età evolutiva sembra inappropriato, troppo crudo, forse persino “dannoso”. L’infanzia è ancora vista come uno spazio sospeso, puro, da tenere al riparo dalle ombre del mondo adulto. Ma la verità è che la malattia fa parte della vita e i bambini e le bambine — che lo si voglia o no — ne percepiscono i segnali: i visi stanchi, le lacrime, i sussurri, le assenze. Quando questi segnali non vengono accompagnati da parole, diventano fantasmi che il bambino riempie da solo, spesso con pensieri peggiori della realtà.

Parlare è, prima di tutto, un atto di rispetto. È riconoscere che chi ci sta davanti è una persona pensante, sensibile, con un suo mondo emotivo. E per questo ha diritto ad avere strumenti per orientarsi.

Come si fa a spiegare l’inesplicabile?

Non esiste una formula unica, una frase magica da imparare a memoria. Ogni bambina e ogni bambino è un universo a sé, con la propria età, sensibilità, storia. Ma esistono degli elementi chiave che rendono questo tipo di comunicazione più autentica e meno traumatica.

La verità, ma calibrata. Non è necessario entrare nei dettagli tecnici della diagnosi. Ma è essenziale non mentire. Dire “il nonno è molto malato e i medici stanno facendo il possibile per aiutarlo” è molto più rassicurante di “sta solo riposando” se poi il nonno non si sveglierà più.
Il linguaggio che accoglie. Non servono parole infantili, servono parole comprensibili. Serve uno spazio per le domande, anche quelle più difficili. È importante usare termini che non infantilizzino ma che non siano neppure troppo astratti. Dire “la malattia non è colpa di nessuno” è un esempio di frase semplice ma fondamentale.
Il tempo dell’ascolto. Dopo aver parlato, serve restare. A disposizione. Pronte e pronti ad accogliere domande che arrivano giorni dopo, emozioni che si svelano nel gioco, nei silenzi o nei disegni. Non tutte le reazioni saranno visibili subito.

La cultura del non detto

Viviamo ancora immerse e immersi in una cultura che considera il dolore un fatto privato, qualcosa da sbrigare “fra adulti”. I tabù legati alla malattia, alla morte, alla sofferenza fisica sono duri a morire. Ma ciò che non si dice, agisce comunque. Si insinua nel corpo, nelle emozioni, nel sonno, nel comportamento.

Quando una bambina o un bambino vive un cambiamento profondo come la malattia di un familiare, la sua mente cerca un senso. Se la persona adulta non glielo offre, se nessuno glielo nomina, spesso se ne prende la colpa. “Forse è successo perché sono stata cattiva”, “forse mamma sta male perché io non obbedisco”. Sono pensieri che si annidano, crescono e fanno danni, in silenzio.

La responsabilità delle persone adulte

Genitrici, genitori, insegnanti e chiunque abbia un ruolo di riferimento per l’infanzia ha il compito culturale e affettivo di rompere il muro del silenzio. Questo non significa sapere sempre cosa dire, ma avere il coraggio di esserci. Anche nell’incertezza. Anche nella paura.

È importante che chi lavora con le scuole, con i servizi sociali, con i centri educativi abbia strumenti per gestire queste situazioni. Ecco perché è urgente diffondere una cultura che accolga la narrazione dell’emotività, della fragilità, della cura. Parlare di malattia non è necessariamente “fare psicologia”, ma è dare cittadinanza all’emotività. È costruire un mondo in cui le nuove generazioni possano crescere con la consapevolezza che anche il dolore ha un nome, e può essere nominato.

Libri, film, parole: gli strumenti che aiutano

Ci sono moltissimi strumenti che possono accompagnare il dialogo sulla malattia. I libri illustrati, per esempio, possono diventare alleati preziosi. Ce ne sono di meravigliosi che parlano di lutto, di ospedali, di dolore, senza mai perdere il senso del possibile. Anche il cinema, se ben scelto, può diventare un ponte per parlare.

Ma lo strumento più potente resta sempre la relazione. Una relazione fondata sull’ascolto, sulla presenza, sull’autenticità. A volte basta una frase vera, detta nel momento giusto, per alleggerire il cuore di una bambina o di un bambino.

Le bambine e i bambini non vanno protetti dalla verità ma dal silenzio e dal gestire in solitudine le proprie emozioni.

Questo spazio non sostituisce un aiuto professionale

Questo editoriale è uno spazio di divulgazione e riflessione. Qui si trovano parole, spunti e strumenti per affrontare in modo più consapevole tematiche complesse legate all’infanzia e all’adolescenza. Tuttavia, se si sta vivendo un momento difficile o se si ha a che fare con una diagnosi che ha stravolto l’equilibrio emotivo della famiglia, è fondamentale rivolgersi a professioniste e professionisti della salute mentale:  psicoterapeute e psicoterapeuti sono le figure adatte per affrontare questi momenti di difficoltà che possono accompagnare le persone adulte, bambine e bambini nel percorso di elaborazione e cura.