Cultura psicologica

Perché i capricci non esistono: neuroscienze dell’autoregolazione emotiva

Inquadrare una crisi emotiva di una bambina o un bambino come “capriccio” è un gesto che parla più della cultura di chi osserva che del comportamento di chi la sta vivendo. La parola stessa – capriccio – contiene un giudizio implicito, uno sguardo adulto che si fa norma e, spesso, punizione. Eppure, le neuroscienze oggi ci restituiscono un quadro ben più complesso e affascinante: quello dello sviluppo dell’autoregolazione emotiva nei primi anni di vita e durante l’adolescenza.

Quando una persona in età evolutiva piange disperatamente, urla, si oppone con forza a una richiesta, il suo cervello non sta mettendo in atto un gioco di potere. Sta, invece, tentando – spesso in modo disorganizzato – di gestire un sovraccarico emotivo per il quale non possiede ancora gli strumenti adeguati. Questo è un dato biologico, non un’opinione.

Un cervello in costruzione

Nel cervello in crescita, le aree responsabili dell’autoregolazione – come la corteccia prefrontale – sono tra le ultime a maturare. Questo significa che bambine e bambini, ma anche le ragazze e i ragazzi, vivono quotidianamente uno squilibrio naturale tra il mondo emotivo (più arcaico e reattivo) e quello razionale (più recente e complesso). Il risultato è una maggiore impulsività, difficoltà a prevedere le conseguenze delle proprie azioni e a gestire la frustrazione.

In una cultura che esige controllo, performance e “bravi comportamenti”, il naturale bisogno di esprimere disagio viene spesso represso, punito, invalidato. L’idea di “capriccio” serve allora a ristabilire l’ordine, a mettere a tacere il caos. Ma cosa succede quando quel caos è in realtà una richiesta di presenza consapevole?

Neuroscienze e narrazione sociale

Gli studi di neuroscienza affettiva e sviluppo emotivo ci raccontano un’altra storia. Non più quella del bambino manipolatore, ma quella di una mente in costruzione, che impara a sentire e a contenere solo se accompagnata. Le emozioni, infatti, si regolano prima esternamente, attraverso la relazione e solo dopo internamente.

Una persona adulta che accoglie, nomina e modella l’emozione aiuta la persona in crescita a costruire reti neuronali più complesse e capaci. Al contrario, una persona che ignora, punisce o deride contribuisce a rafforzare circuiti di stress, reattività e insicurezza.

La neuroplasticità cerebrale è la base di tutto questo: ogni interazione, ogni parola, ogni sguardo lascia una traccia.

Eppure, la retorica del “basta uno sguardo” come unica forma educativa resiste. In molte case, in molte scuole, nei luoghi in cui si dovrebbe costruire senso e sicurezza, si perpetua l’idea che l’infanzia debba essere addomesticata, non ascoltata.

Questo ha radici profonde nella cultura patriarcale, nella paura dell’emozione come elemento di disturbo, nel rifiuto del limite come occasione di relazione e non come imposizione.

L’illusione del controllo

Dire “ha fatto un capriccio” è anche un modo per sottrarsi alla responsabilità adulta di decifrare ciò che sta accadendo. Perché chi educa, chi si prende cura, chi è presente nella vita di bambine e bambini ha anche il compito scomodo di tollerare l’invisibile, di dare senso all’apparente irrazionale, di stare. Il sistema nervoso delle persone adulte – che dovrebbe aver imparato ad autoregolarsi – si confronta così con i propri limiti, con le proprie ferite, con i propri automatismi educativi.

Ecco allora che parlare di neuroscienze in ambito educativo non è solo un esercizio teorico, ma una scelta culturale. Significa cambiare lo sguardo, sovvertire il paradigma, restituire complessità alla relazione educativa. Non si tratta di giustificare qualsiasi comportamento, ma di comprenderne l’origine. Solo comprendendo, infatti, possiamo realmente intervenire.

Dal controllo alla connessione

Le ricerche più avanzate mostrano che un ambiente emotivamente sicuro favorisce lo sviluppo dell’autoregolazione. Il senso di connessione, la coerenza delle persone adulte, la capacità di nominare le emozioni sono le basi di un cervello sano. Questo non significa non porre limiti, ma farlo in modo coerente e rispettoso, mantenendo l’alleanza e non erigendo muri.

Chi lavora con l’infanzia e l’adolescenza dovrebbe poter conoscere questi dati, non come ricette precotte ma come strumenti di lettura del reale. Per uscire da quella logica emergenziale per cui ogni crisi va spenta invece che compresa.

Basta con la pedagogia del silenzio obbediente

Fare cultura psicologica e neuroscientifica significa anche rompere con i dogmi educativi del passato. Significa accettare che le emozioni non sono un problema da risolvere ma una via per entrare in relazione. Significa sapere che ogni urlo, ogni opposizione, ogni crisi può essere un’opportunità educativa, se accompagnata con consapevolezza.