“Ti devo dire una cosa…”. Inizia così, spesso in silenzio, a bassa voce, con le mani che tremano e il respiro che cerca coraggio. È il momento in cui una figlia o un figlio spalanca le porte della verità. È un atto di fiducia e vulnerabilità che interroga l’intera struttura affettiva di una famiglia. Il coming out non è mai solo una rivelazione: è un atto di esistenza. Ed è anche un invito. Un invito a esserci, davvero, senza condizioni. Ma che cosa significa essere alleate e alleati quando si riceve una simile confessione di verità?
Il coming out non è un momento. È un processo.
L’errore più comune che fanno molte persone è pensare al coming out come a una singola frase da affrontare una volta per tutte. In realtà, è un processo stratificato, in divenire. Ogni coming out è un’onda, non una goccia: ha bisogno di tempo, conferme, linguaggio, sguardi. Ha bisogno di persone adulte che non restino impietrite, che non rispondano con silenzi o con domande che feriscono.
Come sosteneva Pierre Bourdieu, la famiglia, insieme alla scuola, è uno dei principali luoghi di trasmissione dell’habitus: un insieme invisibile di norme, aspettative e modelli culturali che influenzano profondamente il modo in cui percepiamo noi stesse e noi stessi e le altre persone (La reproduction, 1970). È anche il primo spazio dove si forma – e talvolta si deforma – l’idea di normalità. Accogliere un coming out significa, prima di tutto, disattivare il giudizio e attivare l’ascolto. È l’ora dell’empatia, non del controllo.
Non serve sapere tutto. Serve esserci.
Essere alleate e alleati non significa avere la risposta pronta a ogni sigla dell’acronimo LGBTQIA+. Significa essere una presenza affidabile, una persona che dice “non so, ma voglio imparare”. Una figura che non si sostituisce alla voce dell’altra o dell’altro ma la amplifica.
Molte persone adulte, educate in contesti eteronormativi, affrontano il coming out con disagio. È umano. Ma quel disagio non può ricadere su chi si apre con coraggio. È un compito interiore, da prendersi in carico con responsabilità. La disponibilità a disimparare e riformulare il proprio sguardo è il primo gesto d’amore.
La differenza tra tolleranza e accettazione
Tollerare non è accogliere. Rassegnarsi non è amare. C’è una differenza sostanziale e non negoziabile tra accettazione e tolleranza. Un genitore che “tollera” l’orientamento della propria figlia o del proprio figlio non è un buon genitore: è una persona che si arrende all’evidenza, perché la luce dell’identità dell’altra o dell’altro è troppo forte per essere spenta.
Tollerare significa tenere a distanza. È un verbo che tradisce superiorità, condiscendenza. Accettare, invece, è aprire le braccia, fare spazio, lasciare che l’identità dell’altra o dell’altro si esprima senza riserve né paure. L’amore vero non ha bisogno di digerire la differenza: la celebra.
Una giovane o un giovane LGBTQIA+ che cresce in un contesto di sola tolleranza sarà portata o portato a trattenere, a censurare, a non fidarsi del proprio sentire. Chi tollera non ha ascoltato, non ha cercato davvero di comprendere, non si è lasciato trasformare. Ecco perché non basta “non opporsi”: serve una scelta attiva, un posizionamento etico e affettivo.
Le parole che costruiscono casa
Un’alleanza vera si costruisce nei dettagli. Nei pronomi corretti, nella curiosità rispettosa, nella scelta dei libri da leggere insieme, nei film che normalizzano ciò che dovrebbe essere già normale. Le parole fanno casa: e una casa, per essere casa, deve essere sicura.
Evitate frasi come “sei sicura?”, “non sarà solo una fase?”, “è perché frequenti quell’ambiente”. Sono domande che feriscono. Partono da un’idea di normalità da difendere, invece che da una realtà da esplorare. Chiedere, invece, “come ti senti?”, “vuoi raccontarmi di più?”, “c’è qualcosa che posso fare per supportarti?” è aprire la porta, non sbatterla.
Essere testimoni, non solo educatrici ed educatori
Una persona adulta che riceve un coming out diventa anche testimone. Non solo madre, padre, zia, educatore. Diventa co-protagonista di un passaggio identitario che ha bisogno di persone alleate forti, lucide e lucidi, consapevoli.
Non si tratta di “permettere” a una figlia o un figlio di essere se stessa o se stesso. Non siete autorità morali del loro sentire. Siete le persone che dovrebbero custodire la loro verità. Se non lo fate voi, chi lo farà?
Testimoniare significa anche esporsi. Prendere posizione quando altre persone ridicolizzano, insultano, deridono. Significa rispondere “non è una moda, è la mia famiglia”. Perché non si difendono solo i diritti: si difende l’intimità.
Essere alleate e alleati è una scelta quotidiana
Non si finisce mai di imparare ad amare. Le famiglie possono (e devono) diventare spazi di trasformazione culturale. Non serve essere persone perfette, basta essere presenti. Chi ama davvero non giudica, non sopporta, non tollera: chi ama ascolta, lascia spazio, protegge la libertà altrui anche quando è differente dalla propria.
L’educazione non passa solo dai programmi scolastici: passa dai pranzi in famiglia, dalle parole sussurrate in auto, dai silenzi che scegliamo di rompere.
Chi ama si mette in discussione.