C’è una frase che ricorre nei pranzi di famiglia, nei corridoi scolastici, nei gruppi WhatsApp dei genitori e nelle conversazioni da bar: «ormai è una moda». Detto con sarcasmo, come se parlare di identità di genere e orientamento sessuale fosse un capriccio passeggero, una ribellione estetica o un bisogno di attenzioni. È una frase che tradisce ignoranza, disinformazione e spesso paura. Ma soprattutto, è una frase pericolosa.
Il filtro culturale delle generazioni precedenti
Le generazioni precedenti sono cresciute in un tempo in cui l’omosessualità era patologizzata, criminalizzata o semplicemente invisibile. La sessualità era regolata da binari rigidi e repressivi: uomo-donna, marito-moglie, maschile-femminile. Tutto ciò che sfuggiva a questo schema era “strano”, “malato”, “sbagliato”.
Questo non significa giustificare chi oggi rifiuta di comprendere le nuove generazioni, ma offre una chiave per capire da dove parte il pregiudizio. Chi non ha mai avuto accesso a un’educazione sessuale ed emotiva libera da dogmi religiosi o ideologici, fatica a riconoscere il valore della pluralità identitaria. Spesso, a questo si aggiunge una cultura familiare patriarcale, in cui la norma è legge e ogni deviazione è una minaccia all’equilibrio apparente.
L’ignoranza non è innocua
Dire che l’orientamento sessuale è «una moda» significa sminuire il percorso di autodeterminazione di chi sta imparando a conoscersi. Significa trasformare in frivolezza un atto di coraggio. L’ignoranza, in questi casi, non è mai neutra. È un atto di violenza simbolica che ha conseguenze reali: isolamento, depressione, ansia, autolesionismo, abbandono scolastico (minority stress).
Molte ragazze, ragazzi e adolescenti crescono in ambienti dove la loro identità viene ignorata o ridicolizzata. Chi dovrebbe proteggerli – genitrici, genitori, insegnanti – spesso si trasforma in muro contro cui sbattere. E non per cattiveria, ma per assenza di strumenti, per paura, per retaggi culturali mai messi in discussione.
L’identità non si sceglie, si scopre
Parlare di identità sessuale e di genere non significa incentivare un comportamento, ma riconoscere un’esistenza. L’idea che “se ne parla troppo e quindi i giovani ci cascano” è tanto assurda quanto dire che leggere un libro sull’empatia faccia diventare buone persone. L’educazione non crea ciò che non c’è, ma dà nome e forma a ciò che già esiste.
Essere lesbica, gay, bisessuale, trans, queer, intersex, asessuale o altro non è un’opzione che si seleziona da un menù alla moda. È una parte profonda dell’identità. E scoprirla, in un mondo che ancora stigmatizza il non conforme, richiede una forza che merita rispetto, non sarcasmo.
Il ruolo delle persone adulte: tra responsabilità e rieducazione
Chi è a contatto quotidiano con l’infanzia e l’adolescenza – genitrici, genitori, insegnanti, educatrici ed educatori – ha il dovere di informarsi. Oggi esistono risorse accessibili, corsi di formazione, libri e podcast che aiutano a comprendere la complessità del mondo LGBTQIA+. Non si può più dire “non lo sapevo”. È una scelta decidere di restare ignoranti.
Occorre un’alleanza generazionale nuova, che passi dalla sospensione del giudizio all’ascolto, dal controllo al confronto. È necessario educarsi per educare. Perché l’identità non ha bisogno di permesso per esistere, ma ha bisogno di contesti sicuri per fiorire.
Non è una fase, è una vita
Chi bolla l’orientamento sessuale come “una fase” o “una moda” confonde l’aumento di identità LGBTQIA+ con la diminuzione della vergogna. La maggiore visibilità è frutto di uno spazio pubblico più aperto, anche se non ancora libero e di un coraggio nel “venire fuori” senza precedenti. È il risultato di anni di battaglie e lotte che le persone LGBTQIA+ hanno fatto in casa proprio e nelle piazze.
Le nuove generazioni parlano perché si sono prese lo spazio. Perché vogliono smettere di sentirsi sbagliate. Perché rifiutano di vivere in silenzio ciò che sono. Non è ribellione, è sopravvivenza dopo anni di soprusi, maltrattamenti e violenze (che purtroppo ancora esistono in molti contesti).
Le ferite dell’incomprensione non sempre guariscono con il tempo
Chi è cresciuta o cresciuto in famiglie rigide, religiose o violente sa bene quanto sia doloroso essere invisibilizzati. L’incomprensione fa male quanto l’insulto. Il silenzio pesa quanto la condanna. E spesso, quelle ferite si portano nel corpo e nella memoria per anni, sotto forma di sintomi. Chi non è stata accolta o accolta davvero, può passare una vita intera a cercare un luogo dove sentirsi intera.
E se invece la moda fosse quella di ignorare?
Forse dovremmo iniziare a ribaltare la domanda. E se la vera “moda” fosse quella di chiudere gli occhi davanti alla complessità? Di attaccarsi a stereotipi e semplificazioni perché il mondo fa paura quando cambia? Forse dovremmo iniziare a chiederci non perché le nuove generazioni parlano, ma perché le vecchie non ascoltano.