Violenza

Perché gli abusi infantili sono ancora sottostimati? Dati e ricerche sulla protezione minorile

Dati e ricerche sulla protezione minorile in Italia

Nel nostro Paese, ogni giorno, bambine e bambini subiscono violenze invisibili. Invisibili non perché non lascino tracce – perché le lasciano eccome – ma perché la società ha ancora un’inquietante abilità nel girare lo sguardo altrove. Parlare di abusi e maltrattamenti nell’infanzia è scomodo, crea disagio. Ma è proprio questo silenzio che alimenta l’oscurità. È proprio qui che comincia il problema.

Secondo il Dossier Indifesa 2023 di Terre des Hommes, nel 2022 in Italia sono stati registrati 6.857 reati a danno di persone minorenni, con un incremento del 10% rispetto all’anno precedente. Nel 2023, il numero è salito a 6.952 reati, pari a una media di 19 violenze al giorno. Ma questi numeri raccontano solo una parte della storia. La realtà sommersa è molto più vasta. Gli studi più recenti stimano che per ogni caso conosciuto ce ne siano almeno altri nove che restano nascosti, non denunciati, non riconosciuti. Una sproporzione che dovrebbe allarmare chiunque abbia a cuore l’infanzia.

La cultura del silenzio e la normalizzazione delle violenze

Perché gli abusi restano sottostimati? La risposta non è semplice, ma ha radici profonde nella cultura patriarcale e nella retorica familiare che per decenni ha raccontato la casa come luogo sicuro per definizione. Ma cosa accade quando proprio quel luogo diventa teatro di controllo, coercizione, trascuratezza? Accade che il dolore viene privatizzato, confinato tra le mura, negato o giustificato. E chi tenta di parlarne viene spesso zittito con frasi come: “non dire sciocchezze”, “sono cose che succedono”, “non mettere in cattiva luce la tua famiglia”. Questo atteggiamento ha un nome: è minimizzazione, è collusione sistemica, è complicità silenziosa.

In molti casi, gli abusi non vengono nemmeno riconosciuti come tali da chi li subisce o da chi li osserva. Questo avviene perché l’educazione emotiva, la consapevolezza dei confini, e la cultura del consenso sono ancora elementi marginali nel dibattito pubblico e nel sistema scolastico. Quando il corpo di una bambina viene violato da chi dovrebbe proteggerla, e la risposta è il sospetto sulla sua credibilità, ciò che viene spezzato non è solo un senso di sicurezza, ma un intero sistema di fiducia sociale.

La responsabilità collettiva

Chiunque lavora o vive a contatto con l’infanzia – genitrici, genitori, insegnanti, educatrici, educatori, professioniste e professionisti della salute – ha il dovere non solo etico ma sociale di sviluppare uno sguardo critico, capace di cogliere segnali, sfumature, richieste d’aiuto non dette. La violenza non sempre si presenta come un livido evidente. Spesso prende la forma dell’isolamento, della regressione, dell’aggressività, dell’enuresi, dei silenzi.

Una cultura della prevenzione richiede formazione, consapevolezza, ma anche il coraggio di agire. Di chiedere. Di denunciare. Di credere. E soprattutto di sostenere. Serve una rivoluzione culturale che smetta di trattare la violenza come un evento eccezionale e inizi a considerarla per quello che è: un fenomeno strutturale, sistemico, che si annida laddove mancano ascolto e giustizia.

La protezione minorile in Italia: tra lentezze e mancanze

Le istituzioni italiane si trovano spesso impreparate o sovraccariche di fronte alle segnalazioni. I servizi sociali sono sottofinanziati, il personale formato per affrontare la violenza minorile è insufficiente, e i tribunali dei minori vivono tempi di gestione incompatibili con la rapidità che certe situazioni richiederebbero. In alcuni casi, l’inadeguatezza delle risposte istituzionali ha contribuito a rinforzare la sfiducia nelle vittime e nelle famiglie protettive.

Inoltre, l’affidamento familiare e le case rifugio per minori sono ancora considerati l’ultima spiaggia, quando dovrebbero essere parte integrante di un sistema preventivo. L’Italia ha firmato e ratificato la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia, ma la distanza tra i principi e la realtà è ancora vertiginosa.

Il linguaggio che tradisce

Anche le parole che usiamo rivelano il nostro posizionamento. Quando si parla di “rapporti ambigui” invece che di abuso, di “situazioni familiari difficili” invece che di violenza, si contribuisce a occultare il reato sotto una patina di ambiguità. La lingua non è neutra. Dire le cose con il loro nome è un primo atto di giustizia.

E se non volessimo più girarci dall’altra parte?

Forse bisognerebbe smettere di pensare alla violenza contro le bambine e i bambini come qualcosa che riguarda solo certe famiglie, certi contesti, certi “casi limite”. La verità è che accade ovunque, in qualsiasi contesto economico-sociale. Nei quartieri centrali come nelle periferie. E accade anche quando nessuno lo vede o non vuole vedere.

Abbiamo bisogno di cambiare paradigma. Serve una nuova alleanza educativa, una cultura del rispetto che parta dall’ascolto, dalla cura, dalla consapevolezza dei diritti. E serve dare fiducia a chi trova il coraggio di parlare. Perché non c’è nulla di più pericoloso di una ferita ignorata.

Questo articolo non sostituisce il supporto di una o di un professionista della salute mentale, ma vuole offrire spunti di riflessione e sensibilizzazione su un tema di grande importanza sociale. Se sospetti che una bambina, un bambino o una persona adulta siano vittime di violenza domestica o se tu stessa o tu stesso stai vivendo una situazione di abuso, chiedi aiuto a professionisti, centri antiviolenza o servizi di supporto specializzati. Parlare è il primo passo per spezzare il silenzio e trovare una via d’uscita.